Editoriale – Da una parte la città cerca di tenere eterna la memoria di quanti nella ormai famosa notte del 6 Aprile 2009, ebbero a perdere per sempre la loro vita. A causa di un evento naturale catastrofico imprevedibile. Questa la parola ricorrente che utilizzano gli esperti piu’ affermati del pianeta rispetto ai movimenti tellurici. Ed anche nel mentre di una sequenza sismica rilevante che può durare mesi, si può ipotizzare di vivere costantemente sui prati. Certo in questo modo andremmo a ridurre i rischi di essere colpiti da un terremoto distruttivo ma non si può vivere.
Rintocchi di campane, i loro nomi ogni anniversario da quel 2009 vengono pronunciati nel cuore di quella città che li onora praticamente ogni giorno. Nel capoluogo aquilano che prova a rinascere ed a ritrovare quel senso di comunità spezzato da un evento inesorabile, tragico, drammatico. Non bastano tredici, quindici o vent’anni per cancellare un orrore che ha segnato famiglie, persone, un intero tessuto sociale, come quello della città dell’Aquila ma esteso anche in tutto l’Abruzzo.
Ognuno ha pianto dentro di sè. L’Aquila distrutta è nel cuore di tutti. Quella città così bella, che cerca a fatica di tornare tale, e di lasciarsi alle spalle l’orrore del mistero della vita terrena. Ed è proprio il potere terreno a gettare una nuova ombra, un nuovo dolore. Si ha rispetto per le istituzioni dello Stato, ma si resta allibili di fronte ad una sentenza che sicuramente passerà alla storia, ma oltre che ad interagire su azioni risarcitorie e questioni annosamente burocratiche ferisce nuovamente la città.
Ed ecco che il dolore mai sopito, improvvisamente si sveglia. L’analisi di quella notte. Quelle vittime ricordate ogni momento dagli zampilli di fontana in una area in cui l’orrore del sisma si coniuga con la ricostruzione. Basta alzare gli occhi e guardare le facciate degli edifici, delle case.
Quelle case in cui la gente abitava, e che ora è ritenuta, seppure in parte, colpevole di essere rimasta all’interno. Avrebbero dovuto prevedere lo sfacelo in sostanza, spiega oggi un Tribunale.
E nella foto di cui sopra, cerchiamo di scorgere tra questo bianco della ricostruzione e tra il nero del dolore, del lutto, della distruzione ancora una ragione per andare avanti e per far tornare a volare L’Aquila.
Ma ecco che una nuova spada di Damocle, era destinata a cadere ancora una volta sul collo di una sensibilità, di un argomento da trattare in punta di penna anche a livello giornalistico: i sentimenti, l’orrore, la sofferenza amara di una vita che improvvisamente per molti finisce tragicamente, e per altri continua, ancora oggi nel dolore.
Ricordiamo che improvvisamente quella notte in cui c’era gente che rideva sul letto, si è arrestata la vita, sono finite emozioni di quartieri, gente che improvvisamente si è ritrovata in strada, e si è dovuta trasferire in case, moduli, map come vogliamo chiamarli dove ancora oggi in molti vivono. Avendo lasciato quella vita di prima destinata a non tornare mai piu’.
Il processo a quella notte, non sembra tanto essere dunque stato indirizzato a chi rideva, ma a chi moriva. Incautamente rimasti in casa avrebbero dovuto prevedere la scossa distruttiva e mettersi in salvo.
Oggi ci sono proteste, ognuno con i cartelli chiede il suo 30% di responsabilità.
Ma l’indignazione in questo caso, seppure legittima, non restituisce nemmeno in parte la lesa pietà a quei defunti i cui nomi, ancora oggi, sono scolpiti, uno ad uno nel cuore della bella città. Ai posteri le ardue sentenze.