Fotografare civiltà: intervista al reporter Marco Rubegni sull’etnia Sebei in Uganda
La fotografia di reportage è una finestra sul mondo e sugli eventi della nostra storia. Una testimonianza visiva che ha il potere di far riflettere grazie al linguaggio universale dell'immagine.
Di fronte agli avvenimenti del mondo “non siamo estranei, non siamo semplici spettatori ma partecipiamo attivamente, con la nostra sola presenza, alla storia che stiamo narrando. Tutto quello che rappresentiamo assume il valore di documentazione nel campo dello sviluppo storico e non si tratta solo di produrre una narrazione ma di metterci la propria firma”. Con queste parole il fotografo Marco Rubegni ci racconta la sua idea di reportage e il lavoro fotografico che ha realizzato sull’etnia Sebei in Uganda.
Marco, toscano classe ’88, ha studiato fotogiornalismo e lavorato in uno studio di fotografia commerciale, ma la sua vera vocazione è sempre stata quella da reporter. Ha lavorato in scenari come l’Africa e il Medio Oriente. Con la sua attività ha documentato la storia della popolazione Sebei restituendoci lo spaccato di un popolo che rappresenta oggi solo l’1% in Uganda. Abbiamo incontrato Marco Rubegni per conoscere meglio il suo progetto.
Ciao Marco, grazie per la disponibilità che ci hai dato nel voler raccontare questo tuo progetto. Per cominciare, dicci qualcosa di te e della prima volta che hai preso in mano una macchina fotografica.
“Ho scoperto la fotografia circa dieci anni fa, grazie ad un amico che mi fece provare la sua macchina fotografica. Era la prima volta che ne usavo una ed è stato amore a prima vista e ho capito che quella sarebbe stata la mia strada. Da quando ho preso in mano la mia prima macchina fotografica ho avuto lo stimolo di voler essere testimone delle storie degli altri, di quelle più piccole e intime, le storie ordinarie, la vita che celebra se stessa.”.
Come si è evoluta la passione per la fotografia e da chi sei ispirato?
“Non sono cresciuto in mezzo a vecchie macchine fotografiche e scatole piene di negativi e polaroid. È cominciato tutto col cinema. Andavo in sala e con la mente scattavo delle istantanee dei fotogrammi che più mi avevano impressionato, non riuscivo a sfuggire al fascino della composizione, di come la luce si muovesse tra i soggetti e di quel continuo giocare con le inquadrature che sempre di più assomigliavano ad un ballo.
La fotografia è venuta dopo, è arrivata tardi ma non se n’è più andata. Ad ispirarmi maggiormente però, è stata la letteratura. È nei libri che trovo la mia pace, il mio Nirvana e tutto il sogno che mi serve per scattare una fotografia, per fissare quel momento.
Mi sono appassionato al fotogiornalismo, guardavo agli autori come Robert Frank, Walker Evans o Gordon Parks con rinnovata meraviglia. Sono stati i miei maestri, hanno saputo raccontare il loro tempo con eleganza, intimità ed empatia. La vecchia America che vive sui binari, al limite delle praterie e nei sobborghi metropolitani, la segregazione, storie di famiglie, amici, amanti sullo sfondo del grande sogno, del benessere che ha inghiottito tutto. Queste vite che prendono forma, indaffarate e sospese riescono ad esercitare un certo fascino su di me”.
Parlaci del tuo viaggio in Uganda. Cosa ti ha spinto a raggiungere questa parte dell’Africa e come ti sei preparato.
“Sono arrivato in Uganda per raccontare la vita degli atleti della selezione olimpica. Ricordo il caos disorganizzato e l’umidità che ti colpiscono una volta entrato nella capitale Kampala. Ma di tutte le difficoltà la più ostica è la polvere che si deposita ovunque. Per me è importantissimo essere fisicamente pronti, mi preparo con intense sessioni di allenamento che mi permettono di acquisire una certa lucidità di pensiero. Naturalmente, anche la scelta dell’attrezzatura è una componente fondamentale per la riuscita di un reportage. Preferisco muovermi leggero. Avevo con me solo una piccola fotocamera con un obiettivo 35mm ed una vecchia Nikon analogica”.
Come è stato l’impatto con l’etnia Sebei?
“Non conoscevo i Sebei prima. Avevo appena raggiunto le pendici del Monte Elgon, in prossimità del confine con il Kenya, insieme agli atleti e lì sono stato messo al corrente dell’esistenza di un accampamento di profughi, così mi sono stati presentati. Sono stato accolto molto calorosamente, si sono riuniti tutti, circa duecento persone tra anziani, adulti e bambini, e mi hanno raccontato la loro storia. Mi ha colpito il fatto che nonostante le pessime condizioni in cui versavano, si presentassero a me sempre ben vestiti e curati. Sono stati molto gentili e disponibili, la dignità non li aveva abbandonati”.
Può essere difficile lasciare che gli altri si facciano fotografare, specialmente se si tratta di scatti così intimi. Come sei riuscito in questo?
“Credo sia molto importante saper ascoltare e lasciarsi meravigliare. Non si tratta di imporre la propria visione ma di far propria quell’umanità che si proverà a documentare. Preferisco passare molto tempo coi soggetti, anche senza fare fotografie. Conoscersi è un passo fondamentale per scattare, e per farlo è necessario liberarsi dal giudizio esterno accettando il confronto e la consapevolezza di non essere infallibili. Penso che sia determinante avere sempre chiaro il perché si sta facendo fotografia: la motivazione e l’intenzione sono alla base di tutto il processo”.
Come vive la tribù e quali sono le sue “regole sociali”?
“I Sebei vivono lontano dai centri urbani, sono difficili da raggiungere e, almeno in origine vivevano di pastorizia e agricoltura. Sono suddivisi in clan familiari e l’appartenenza ad uno di essi è fondamentale. I Sebei che ho incontrato vivono in unità abitative piccole e buie, costruite con argilla essiccata al sole e stocchi di mais esausti.
Come in ogni società tribale, i giovani adulti vengono sottoposti a riti di passaggio che ne determinano il futuro e l’inserimento nella comunità. Le donne si dedicano a creazioni manuali da barattare nei vari mercati locali. Ho avuto la fortuna di partecipare ad un rituale, un ballo tradizionale in onore della montagna, casa loro. Ancora oggi ricordo quel canto, viene a va dentro di me”.
È evidente una predilezione per soggetti in posa e in bianco e nero: quale è il motivo di questa scelta?
“Nei primi anni della mia formazione mi colpì il progetto Dioramas del fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto, in cui riproduzioni museali di animali e ominidi prendevano vita, pur nel loro immobilismo. Rimasi folgorato dallo stile minimalista e pulito. La mia però non è stata solo una scelta stilistica ma anche pratica. Lo spazio all’interno del campo era ridotto e la luce molto forte mi costringeva a riposizionarmi di continuo. Molti scatti sono stati realizzati in pochi metri quadrati, perciò ho preferito ampliare il campione di soggetti da ritrarre nelle giuste condizioni di illuminazione e spazio, a scapito dell’azione”.
Parlando di insediamento umano in aree protette, i Sebei possono rappresentare una minaccia per la foresta e il Monte Elgon? Quali sono i rapporti con il governo e il tuo parere a riguardo?
“L’insediamento umano all’interno o nei pressi di aree protette ha da sempre rappresentato una sfida per la conservazione.L’ecosistema del Monte Elgon viene considerato vitale per molte specie dichiarate minacciate o a rischio estinzione, ed è un’importante riserva idrica.
Se da una parte è vero che la presenza della comunità abbia generato pressione sull’ecosistema, a causa dell’intensificazione dell’agricoltura e del disboscamento, d’altra parte gli interessi personali e economici della politica locale hanno trovato terreno fertile in una situazione instabile e pronta ad esplodere. La salvaguardia ambientale è stata il pretesto del governo per liberare terre da poter mettere a reddito.
Il governo centrale al fine di liberare l’area per alleggerire la pressione sull’ecosistema e ricollocare i Sebei attuò la bonifica di circa seimila ettari di terra ma di oltre quattromila famiglie che beneficiarono solo settecento appartenevano alla comunità Sebei del Monte Elgon. Come in quasi tutte le faccende umane, la verità anche in questo caso sta un po’ nel mezzo. Di fatto penso che non si sia mai lavorato per raggiungere un compromesso di stabilità tra le parti”.
Cos’è per te il reportage sociale e quale testimonianza vuoi dare?
“Credo sia soprattutto uno stabilire un legame, diventare testimoni di un’umanità che ci è lontana. Ciò che viviamo, che vediamo e facciamo nostro diventa un patrimonio collettivo. Ciò che fotografiamo è il frutto di quello che siamo, che abbiamo fatto, letto, studiato, dei film che abbiamo visto e del cibo che mangiamo, non esiste imparzialità e non c’è nessuna verità assoluta. Quella che raccontiamo è la nostra verità. Siamo come mosaici e le storie tasselli in più che vanno via via definendoci.
Tiziano Terzani diceva che “i fatti non registrati non esistono. Sofferenze senza conseguenze e senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta.” Ed è questo il valore che vorrei portare nel mondo e non permettere che ciò che vivo e racconto, le storie di tutta quell’umanità che ho conosciuto, smettano di esistere e se ne perda traccia. Tenendole in vita mi impegno a diventarne il custode, ho la responsabilità di conservare la memoria della gioia, della sofferenza e di tutti quei momenti che ho vissuto insieme alle persone che ho immortalato con la mia macchina fotografica, con cui ho condiviso un pasto, un tetto sopra la testa, un viaggio sul retro di un pickup o una semplice stretta di mano”.
Hai altri progetti in cantiere?
“Tutti i progetti che ho in cantiere hanno l’essere umano al centro, la mia è una ricerca. Ne sono affascinato, attratto, ed anche per un breve periodo di tempo, ecco che voglio essere un beduino nel deserto, un cacciatore nella Foresta Amazzonica o un nomade nella sconfinata Mongolia!
Traggo molta ispirazione dai libri, progetto di ripercorrere i passi di Terzani in Asia, lungo le sponde del fiume Mekong o alla ricerca dei fantasmi di Malacca; di Kerouac nel cuore pulsante dell’America tra Drive In illuminati al neon, vecchie cantine in cui si ascolta musica Jazz, squallidi Motel con la moquette consumata e una continua fuga su di una strada blu a bordo di una Buick Riviera decappottabile degli anni ‘70.
Sogno di perdermi tra Atacama e la Patagonia, nella Pampa insieme ai Gaúchos come in un racconto di Sepúlveda e di vagare senza tempo nella steppa siberiana fino alla Kamchatka e alle isole Kurili. Ho nel mirino l’Asia centrale, da Samarcanda fino alla valle di Fergana con, sullo sfondo, il grande sogno dell’Afghanistan”.
Ringraziamo Marco per la testimonianza che ci ha dato con il suo lavoro, svolto con grande passione e determinazione. Desideriamo concludere l’intervista con una sua riflessione, che possa essere di ispirazione per molti: “Porto dentro la volontà di sognare e di continuare a farlo nonostante tutto. Il sogno per me è fondamentale. È tutto ciò che sono, è quel qualcosa a cui aggrapparsi tutti i giorni ed è il valore che vorrei portare nel mondo”.