Carsoli – Di fatto, la scrittura nasce per memorizzare, tracciare sulla superficie di un oggetto qualcosa che altrimenti evaporerebbe col tempo. Di fatto, allo stesso tempo, la scrittura nei secoli ha visto questa sua funzione originaria defilarsi, essere accostata da nuove possibilità e infine essere condivisa con mezzi (l’immagine, il video) per certi versi più efficaci a registrare e conservare. Nonostante questo, però – forse (banalmente) per la semplicità dello strumento, o forse (meno banalmente) perché la registrazione scritta significa anche qualcos’altro rispetto al trattenere informazioni – la scrittura conserva ancora oggi questa antica funzione – e ciò può essere particolarmente vero nei luoghi di marginalità (come la provincia e il paese) dove l’accessibilità a mezzi più sofisticati è particolarmente complicata.
Così è per i libri di Roberta Rubini, scrittrice di Carsoli che, fra l’altro, presenterà i suoi lavori proprio oggi, ore 11:00, al Teatro La Fenice di Arsoli, per un evento organizzato dal gruppo di T.N.T Teste Non Trattabili. Se è vero che le sue tre opere sono abbastanza diverse fra loro (in particolare osserviamo una netta cesura tematica tra il primo e i successivi due), è altrettanto vero che a legare questi testi per altri aspetti assai diversi è proprio l’idea di scrittura come forma di testimonianza – in senso catartico, da una parte, e in senso storico-comunitario, dall’altro.
Di catarsi possiamo infatti parlare a proposito di La mente nel pozzo, primo libro di Roberta Rubini, uscito una prima volta con il titolo Mente in eclissi nel 2008 per Kappa Edizioni e poi riedito dieci anni dopo per Iacobelli. Catarsi, perché quest’immagine di una mente che si oscura (per eclissi o per caduta) non è che una metafora per indicare la depressione, che Rubini ha vissuto in prima persona e deciso – con molta forza e nervi saldi – di raccontare in questa sorta di romanzo/memoir, con l’obiettivo da una parte di esorcizzare la propria esperienza, dall’altra di aiutare gli altri e di informare a proposito di una malattia che socialmente non viene ancora riconosciuta come tale, e anzi spesso stigmatizzata e banalizzata. In questa direzione si muove anche la lunga prefazione di Claudio Mencacci, Presidente della Società Italiana di Psichiatria, con cui lo scritto di Rubini dialoga complementarmente: se da una parte si assiste all’urgenza di informare (col rigore necessario della scienza), dall’altra si concretizza quella di sensibilizzare, di aprire, proprio attraverso le forme della narrazione, spazi in cui il lettore può entrare con l’occhio di chi la malattia l’ha conosciuta davvero. E sta lì del resto l’aspetto più interessante del libro: in quelle immagini – rimangono impresse soprattutto la fissazione sui denti o l’asportazione delle etichette dai prodotti alimentari per non vedere lo scorrere del tempo – in cui la potenza del letterario è il realistico inatteso, la replicazione fedele di una condizione (inquietante) altrimenti irreplicabile.
Ma la testimonianza può muoversi anche dal racconto altrui, e farsi cioè collettiva. Così è per i due successivi libri di Rubini, accomunati dal tema del distacco da e dell’attaccamento al proprio paese. Sorrisi e lacrime. La guerra di Riccardo (2016, Iacobelli) è infatti la rielaborazione di scritti con cui l’autrice aveva immortalato, molto tempo prima, le storie di suo nonno, partito per la Seconda Guerra Mondiale come molti della sua generazione. Il romanzo (che ha ancora però, come si è capito, le caratteristiche della biografia e del memoir) racconta perciò alcuni episodi della guerra vissuta dal protagonista, denuncia le condizioni infami cui erano costretti a vivere (?) i soldati, ma soprattutto mette questo macro-evento, destinato a segnare le sorti dell’umanità tutta, in relazione al piccolo mondo antico del paese, e precisamente di Carsoli, dove Riccardo ritorna, trovandolo radicalmente cambiato. Non solo per le trasformazioni distruttive della guerra, ma più di tutto per quelle (alle prime intrecciate) umane ed esistenziali: il ritorno di Riccardo è il ritorno impossibile alla propria terra, un viaggio onirico oltre che reale tra il tempo che necessariamente avanza e il luogo che necessariamente si dissipa.
Ed è così anche per le Storie italiane sotto cieli stranieri (2021, Iacobelli, prefazione di Franco Arminio), che raccoglie appunto i racconti di italiani emigrati per varie motivazioni e soprattutto in cerca di fortuna in America. Accanto a storie più note (come la tristemente celebre parabola di Sacco e Vanzetti), si fanno avanti realtà minuscole agganciate all’Abruzzo, ad esempio, micro-epiche della ricerca di un senso che sembra non trovarsi definitivamente se non – proprio – nella logica di un distacco necessario e tragico, di cui diventa generale allegoria il cimitero, evocato nel primo racconto, luogo della fine ma anche del dialogo presente (per chi rimane) con i morti, con la parte di noi che ci ha preceduto nel distacco. Siamo ancora – per forza – nel gioco della provincia opposta al centro (anche lontano e mitologico come quello americano), del partire (anche solo per un viaggio oscuro e interiore, nel pozzo) opposto a un tornare che è particolarmente complicato per chi nasce nella mancanza. Di cui la provincia è capitale e i libri di Roberta Rubini esempio di indagine.