Roma – È un enorme salone lungo 44 metri e largo 23, realizzato nel 1930 dall’architetto Clemente Busiri Vici, senza pilastri e con una vista mozzafiato sul Circo Massimo, a ospitare uno dei laboratori più suggestivi della capitale. Qui nascono le scenografie del Teatro dell’Opera di Roma, un esempio di arte e artigianato esportato e apprezzato in tutto il mondo. Le tele e i fondali arrivano direttamente dal reparto falegnameria, situato al piano terra dell’ex Panificio Pantanella. Completato il lavoro il materiale viene fatto salire attraverso un braccio mobile esterno, pronto per essere dipinto. “La falegnameria si occupa delle costruzioni in legno: pareti, scale, finestre, mentre il servizio scenografia interviene pittoricamente e matericamente – spiega Alessandro Nico, responsabile della progettazione esecutiva del Teatro dell’Opera con un passato da collaboratore di Franco Zeffirelli – I tempi di consegna del materiale variano a seconda del tipo di spettacolo che dobbiamo allestire: quanto è grande, quanto è complesso. Generalmente minimo ci vuole un mese per preparare tutto, solo se si tratta di opere di repertorio possiamo impiegare meno tempo avendo una base di partenza”. Un lavoro complesso e poco conosciuto che riguarda professionisti con competenze molto diverse che devono saper collaborare coniugando manualità e tecnologia. Il bozzetto presentato da un regista innesca un processo produttivo affascinante proprio perché, passo dopo passo, l’idea prende gradualmente forma grazie a questo mix tra arte e tecnologia, con metodi inventati nell’Ottocento che si sposano perfettamente con gli ultimi programmi in 3D.
Nel laboratorio delle scenografie del Teatro dell’Opera si dipinge sempre in piedi, con un lungo pennello che termina con un beccuccio di ottone che trattiene un carboncino. Un metodo che consente di avere un controllo visivo più ampio durante il lavoro, trattandosi di tele di grandi dimensioni che possono arrivare anche a 200 metri quadrati (20×10): “È una tecnica inventata in Italia nell’Ottocento e poi copiata in tutto il mondo. Per imparare questo metodo ci vuole moltissimo tempo, un grande maestro diceva che dopo 10 anni si diventa soltanto un imbrattatele”. In questo luogo hanno lavorato grandissimi artisti da Cambellotti a De Chirico, da Picasso a Guttuso, da Manzù a Prampolini oltre a famosi sceneggiatori, come Cagli, Maccari, Turcato o Ferretti.
A pochi metri di distanza, in una saletta laterale, c’è un piccolo colorificio: in passato le terre venivano direttamente macinate qui, con una grossa mola, ora arrivano già pronte e vengono sciolte in un collante naturale che non altera le cromie dei pigmenti, mantiene la tela morbida, elastica e impermeabile, in modo che il colore non passi dall’altro lato. Ci sono varie tonalità, ad esempio, si passa dal giallo dorato a quello mandarino fino al giallo artiglieria.
Quando si progetta un nuovo elemento da costruire e mettere in scena sono molteplici gli elementi da tenere in considerazione: “Le parti sezionate, innanzitutto, non solo devono poter affrontare un viaggio, ma anche entrare nelle porte del Teatro e successivamente nei magazzini – sottolinea Nico mentre ci mostra sul suo computer le immagini tridimensionali di una scalinata e di altri bellissimi fondali – Il sezionamento ovviamente non si deve vedere in scena, i tagli vanno ben nascosti. Ogni teatro costruisce in maniera un po’ diversa, con tecniche consolidate e basate sulla tradizione. Fondamentale è anche l’aspetto della sicurezza, alle Terme di Caracalla ad esempio (la stagione estiva è attualmente in corso, con un grande successo di pubblico ndr) c’è molto vento e dobbiamo progettare costruzioni completamente diverse rispetto a quelle utilizzate al Teatro Costanzi”. In passato l’opera veniva ambientata proprio all’interno delle Terme di Caracalla che invece ora fungono da fondale, una quinta di grande suggestione, come solo Roma può regalare.