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A Tufo di Carsoli rivive la memoria del “maestro degli italiani”

TUFO DI CARSOLI – Nel centenario della nascita Tufo di Carsoli ha onorato la memoria del maestro Alberto Manzi  facendola ancora vivere attraverso una molteplicità di iniziative. La madre Rina era originaria del borgo e mai si è staccato questo “cordone” tra la famiglia del Manzi e Tufo di Carsoli. Divenne noto il “maestro” al quale è intitolato anche l’Istituto Omnicomprensivo di Carsoli con il “Corso di istruzione popolare per adulti analfabeti”, istituito nel 1960 dalla Rai con il Ministero della Pubblica Istruzione, per insegnare a leggere e scrivere agli italiani nel dopoguerra. La prima puntata del 15 novembre è stata rievocata con una raffigurazione nel contest del progetto Intonaci che vede protagonista il paese delle arti splendere tra colori, espressioni d’arte, sculture che ogni anno aumentano. E’ stato anche svelato un monumento marmoreo dedicato alla figura di Manzi che resterà ora a perpetua memoria nel borgo.

Alberto Manzi nasce a Roma, il 3 novembre del 1924, da padre tranviere e madre casalinga. Amante del mare, studia per diventare capitano di lungo corso e contestualmente consegue gratuitamente anche il diploma magistrale. Antifascista come tutta la sua famiglia, si vede costretto alla latitanza per sfuggire all’arruolamento, e solo nel 1944 – con  l’arrivo degli americani a Roma – decide di arruolarsi volontario nel battaglione San Marco, partecipando attivamente alla Seconda guerra mondiale.

Torna dalla guerra profondamente cambiato – racconta Michela Visone –  e altrettanto profondamente deciso a voler diventare maestro. Si laurea prima in biologia alla facoltà di scienze di Roma e poi in filosofia e pedagogia con il professor Volpicelli (con il quale collaborerà al magistero di Roma nel 1953).“

Il suo percorso di educatore inizia nel carcere minorile Aristide Gabelli nel 1946, dove gli vengono affidati 90 detenuti tra i 9 e i 17 anni. In un ambiente duro quale il carcere, senza ricevere strumenti didattici, Alberto Manzi riesce con la sua piena volontà ad attirare l’attenzione dei ragazzi, nonostante questi non avessero dove sedere né dove scrivere .

La potenza del racconto è il primo strumento fondamentale per catturare per sempre l’attenzione di tutti i ragazzi detenuti: Manzi inventa una storia che narra di un gruppo di castori che lottano per salvare la propria libertà. Con il suo metodo riuscirà a conquistare la fiducia dei giovani detenuti e insieme collaboreranno alla realizzazione di un testo narrativo, portandolo pure in scena; di lì a poco, il maestro Manzi rielaborerà il testo rendendolo un romanzo pluripremiato e formativo: Grogh, storia di un castoro, pubblicato anni dopo da Bompiani e tradotto in ventotto lingue.

Il lavoro sorprendente di Alberto Manzi come maestro, ma soprattutto come uomo, contribuisce al recupero quasi totale di quei ragazzi: si pensi che, una volta usciti dal carcere, solo 2 su 94 sono ritornati in prigione.

Il suo metodo educativo prescinde dal principio di imparare attraverso regole e ordine rigorosi e, allo stesso tempo, contraddice i canoni consueti della didattica utilizzando modalità ludiche basate sui tempi del gioco e dell’avventura, introducendo lo ”scoutismo”.

Il suo carisma e la sua determinazione lo portano al fianco di Volpicelli come assistente universitario a dirigere la scuola sperimentale del magistero di Roma nel 1953 e, successivamente, Domenico Volpi lo chiama a collaborare con Rodari e Jacovitti alla rivista Il Vittorioso. Solo dopo un anno abbandona l’incarico perché “non c’era più nulla da sperimentare” e ritorna al lavoro di maestro elementare presso la scuola “Fratelli bandiera” di Roma, dove resterà per tutta la vita.

Nel 1954 scrive Orzowei, vincitore nel 1956 del premio Andersen e clamoroso successo internazionale, pubblicato da Bompiani e Rizzoli e tradotto in 32 lingue. Orzowei è la storia di Isa, un trovatello bianco che, dopo aver vissuto tra i neri come emarginato da tutti, muore implorando che bianchi e neri superino gli ostacoli del colore della pelle e dell’appartenenza a una tribù.

La storia raccontata in questo libro per ragazzi, ma non solo per loro, contiene quello stesso spirito istruttivo che aveva portato il maestro Alberto Manzi a creare e presentare la trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”. Il desiderio dell’autore è insegnare qualcosa al lettore, trasmettendo un chiaro messaggio di uguaglianza e di rispetto tra i popoli il cui concetto cardine è la normalità della diversità.

Nel 1955, l’università di Ginevra gli affida una ricerca scientifica su una specie di formica amazzonica e Alberto compie il suo primo viaggio in America Latina. Ancora una volta la sua “idea fissa” prevale sul resto, e il naturalista lascia spazio al maestro. A contatto con i contadini analfabeti, sfruttati e privi di diritti, Manzi sente di poter dare il suo contributo alla libertà degli indios e dei campesinos e apre un nuovo campo d’azione. Prima da solo e poi con gruppi di studenti universitari torna in questi Paesi, ogni estate per vent’anni, seguendo programmi di cooperazione internazionale.

Sarà accusato di complottismo e sovversione e la sua esperienza sudamericana sarà poi la materia di un ciclo di romanzi che rappresentano un atto di amore e di accusa: La luna nelle baraccheEl loco e E venne il sabato.

Nel 1960, nel pieno della sua attività di insegnante e divulgatore scientifico per ragazzi viene ingaggiato dalla Rai per la trasmissione televisiva ”Non è mai troppo tardi”. È il più grande esperimento ”multimediale” di didattica a distanza di educazione degli adulti: andrà in onda fino al 1968, con il grande risultato di aver fatto prendere la licenza elementare a un milione e quattrocentomila italiani.

Gli anni a venire sono ricchi di produzioni radiotelevisive e editoriali, senza mai abbandonare, però, la scuola e i suoi ragazzi.

Durante la sua carriera di maestro è contrario al modello scolastico italiano, promuovendone lo svecchiamento. Sul finire degli anni ’70, il Ministero dell’Istruzione introduce schede di valutazione personali per ogni alunno: Alberto si rifiuta di redigerle e gli costano due anni di sospensione e il dimezzamento dello stipendio .

L’anno successivo decide di far fare un timbro che riassuma una valutazione complessiva per tutti i ragazzi con scritto “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Una frase destinata a diventare presto un modello.

Concluse il suo cerchio di impegno sociale e civile diventando sindaco di Pitigliano, in provincia di Grosseto, dimostrando anche in questa circostanza la sua grande passione e determinazione nell’aiutare il prossimo, impegnandosi in prima persona nelle attività di primo cittadino.

Con la sua lunga carriera di maestro, poeta e scrittore, Alberto Manzi ci ha lasciato un’immensa eredità di produzioni letterarie e un modello didattico che ha influenzato e influenzerà (speriamo ancora) il pensiero pedagogico presente e futuro.

Lo ricordiamo con questo estratto di una lettera che lasciò nel 1976 ai suoi alunni di quinta elementare:

Spero che abbiate capito quello che ho sempre cercato di farvi comprendere: non rinunciate mai, e per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, ad essere voi stessi. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o ‘addomesticare’ come vorrebbe.