BOLOGNA – Il rischio di morire è nelle pieghe, nei dettagli. Ieri ha preso la forma di un avviso, un alert a chi è presuntuoso e sottovaluta le situazioni. Ti avvisa per richiamarti e poi ti offre la soluzione nel modo più impensabile, una sceneggiatura da film: le chiavi lasciate dentro l’auto che ti sta bloccando nella tormenta. Quell’auto lasciata di traverso alla carreggiata da una donna fuggita per il terrore ma che provoca altro terrore. Sbarra la strada di casa. Ieri sera dopo le 20 per nessuno sarebbe stato igienico girare per strada a Bologna. Ma chi scrive tornava da una conferenza pubblica, a cui aveva aggiunto altro tempo per la spesa al supermercato.
Partenza da via Battindarno, Certosa e poi via verso San Lazzaro di Savena dai viali che già da porta San Mamolo avvisavano che le cateratte erano state aperte. Staveco una pozzanghera, giardini Margherita meglio, via Murri accettabile, Toscana le porte dell’inferno: l’asfalto ridotto a ghiaia grossa mista a rivoli d’acqua, tombini esplosi, aperti come petali di rosa.
Molino Parisio intasato, la via di fuga è via dei Lamponi, via Ortolani. Fino alla rotonda di via Arno tutto ok. La città finisce, inizia la furia del Savena. Con lo Zena che sta già martoriando su a Botteghino di Zocca, prendendosi la vita di un ragazzo, e il piccolo Rio Polo che scende da Croara non sono più fiumi. Sembrano ultras calcistici che si congiungono e si alzano il cappuccio e la sciarpa sul volto per iniziare gli scontri. Devo salire dalla via Bellaria, ma giù all’incrocio con la via Pontebuco è già saltata la rete fognaria, rifatta ormai almeno un paio di volte dalla Bonifica Renana, a cui tutti bonifichiamo ma che finora non ha bonificato un bel nulla in uno degli incroci di San Lazzaro più raccontati sui social in ogni cronaca alluvionale dal 2023 in avanti.
Nel lago che si para davanti una Mercedes nera è già con l’acqua alle portiere ed è stata abbandonata. Sono circa le 20,30, la pioggia è una raffica sorda, una mitragliatrice cupa di mille spilli. Molti automobilisti si riparano smarriti sotto le tettoie di una pompa di benzina. Pochi metri da casa, ma da qui non si passa. Matura la decisione più sfidante e rischiosa, ancorché obbligata da un punto di vista viabilistico: salire dalla chiesa di Croara, l’abbazia di Santa Cecilia dentro al Parco dei Gessi, fatta e rifatta dal Mille all’800, un gioiello decadente al cui declino lo straordinario Don Ruggero non si rassegna al punto da candidarla come luogo Fai. C’è una strada nel bosco, in parte asfaltata, in parte sterrata che aggira la vallata e solitamente si percorre bene. Andare a vedere com’è e provarci è l’idea per non restare all’addiaccio. Son due-tre chilometri fino all’Abbazia e poi un altro chilometro di cavedagna. Non è lunga, si può tentare. Si sale verso la chiesa e c’è ghiaia grossa. Avanti. Si sale e nei punti più alberati si vede che quando l’uomo lascia fare alla natura la natura il suo dovere lo fa alla grande. I fossi defluiscono bene l’acqua, le fronde degli alberi contengono la furia della pioggia. Inizia il viottolo. Asfalto tutto ok, appena inizia lo sterrato ci sono fessure ma la ghiaia drena ancora abbastanza bene. Tracimano dai poderi circostanti dei fiotti d’acqua importanti ma sono rubinetti aperti, grandi qualche pollice stimerebbe chi si intende di idraulica. Vanno a tutta forza, ma per ora non provocano frane, il terreno non è in grande pendenza. Dai che ce la facciamo.
Alle 21 l’avviso ai naviganti, il contrappasso a poche centinaia di metri da casa. Una Peugeot nera come la notte a lisca di pesce attraverso la carreggiata che permette il passaggio di un’auto a direzione alternata. Tutto sbarrato. Mani nei capelli. La visibilità è anche diminuita perchè la pioggia ieri notte faceva come il gatto col topo. Qualche minuto rallentava, qualche minuto si infittiva, digrignava i denti, assediava i tergicristalli e crepitava nelle orecchie.
Parte una ricerca frenetica sulle chat di vicinato. L’informazione chiave c’è: il proprietario si scusa per la figlia che l’ha abbandonata, non ha retto alla paura. Lo raggiungiamo al telefono. La chiave è nell’auto, la ragazza ha lasciato tutto lì, anche le scarpe. Va in moto. Mia moglie mi guida in retromarcia nel buio di luci posteriori che non illuminano nella tormenta. Due metri indietro, uno in avanti. La macchina scivola pericolosamente sul terreno bagnato. Passa una mezz’ora buona, a passo d’uomo coi finestrini aperti e l’odore della frizione. “C’è uno slargo, accosta qui”. Carreggiata libera, si passa. “Piano che c’è un avvallamento, e lì una buca”. La macchina si spegne, ma nella concitazione si era attivato il male(bene)detto start and stop. Poche centinaia di metri e usciamo da una radura di nuovo nella strada asfaltata.
Non lo rifarò mai più in queste condizioni. Di sotto c’è ancora l’inferno, scene che anni fa si vedevano in televisione quando arrivavano le immagini da altri emisferi. Come quel primo Tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano. Ora il delirio è qui, a casa nostra. Al mattino con alcuni vicini di casa eravamo andati da Don Ruggero a parlare proprio di manutenzioni idrogeologiche, di esercitazioni di protezione civile per i cittadini, di sentieri tagliafuoco contro gli incendi d’estate e per incanalare la furia dell’acqua d’inverno. Cura del verde, dei beni comuni. Spesa pubblica per l’interesse pubblico. Governanti che siano amministratori e non influencer.
Ieri l’abbiamo fatta grossa. Ma grazie a un mazzo di chiavi abbandonate per paura in macchina possiamo parlarne ancora, mentre in basso il Rio Polo ha ridotto le auto a carcasse di autoscontri, ha lasciato nel fango e nella disperazione alcune piccole attività a pochi metri dalla via Bellaria, come abbiamo documentato stamattina, in una pausa di pioggia di questa guerra climatica che come quelle armate ci divide su quale sia il nemico. Che è sempre lo stesso: noi stessi. (www.dire.it – Agenzia Dire)