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A Paganico Sabino conclusi i lavori di recupero della storica Chiesa dell’Annunziata

Paganico Sabino – Concluso a Paganico Sabino, il primo intervento appaltato nel settembre scorso nell’ambito del progetto Pnnr Bando linea B, riguardante i comuni di Paganico; Castel di Tora e Collalto Sabino. Recuperata la bellissima e storica Chiesa di Santa Maria dell’Annunciazione. Lo ha reso noto il sindaco.

Di seguito la storia della Chiesa:

La chiesa, che versava fino a tutti gli anni ’90 in uno stato di semiabbandono, aggravato anche dallo sfondamento del tetto, è stata ristrutturata nel 2001 con un intervento, ideato e finanziato nell’ambito del programma dell’Unione Europea denominato “Albergo Diffuso”. Occupa la parte alta del centro abitato, poco al di sotto della rocca, proprio lungo l’asse viario di collegamento con le mole della valle dell’Obito.
La storia di questo primitivo insediamento ecclesiastico è ricostruibile sia sulla base delle testimonianze documentarie che attraverso la lettura della superficie muraria, che ci permette di recuperare fasi e interventi verificatisi nel corso dei secoli. È incerta la data di fondazione della chiesa ma, sicuramente, già nel 1398 doveva esistere una «ecclesia S. Marie de Paganica est ecclesia per se». La chiesa ricorre quindi all’interno della visita pastorale del 1573 che ce la descrive con un unico altare circondato da una cornice in legno. Qualche tempo più tardi, nel 1673, la struttura interna rispondeva ad una maggiore simmetria con l’altare principale centrale e con due altari laterali.
Nel 1713, invece, la chiesa giustamente denominata come «posita in cacumine castris» aveva solo due altari: quello principale, dedicato alla Beata Vergine Maria, e quello laterale della S. Croce fondato da Giovanni Antonio Palmieri. Durante il XVIII secolo la chiesa doveva aver acquistato una certa importanza giacché vi risiedeva la Congregazione di San Francesco Saverio, che spesso teneva le sue riunioni in un portico adiacente. All’interno del repertorio delle visite pastorali del Vescovo Saverio Marini (1779-1813) troviamo una traccia importante per ricostruire l’aspetto del centro abitato. Infatti il Marini, citando l’edificio annota «[S. Maria] è la chiesa frequentata dal popolo sopra il castello, gli antichi suoi fondi sono uniti dalla parrocchiale». Il termine «castello», già usato dal Marini per indicare il centro abitato della Rocca, nella descrizione dell’insediamento della chiesa parrocchiale di S. Nicola, apre dunque la strada a fondate ipotesi ricostruttive di un primitivo nucleo, centrale, incastellato e fortificato al centro del quale doveva essere posta la parrocchiale di S. Nicola mentre all’esterno era posta a baluardo la chiesa dell’Annunziata. Un sistema, questo, di disposizione delle strutture ecclesiastiche assai diffuso nell’area, da Ascrea a Collegiove. celebrazione della messa finché la chiesa non fosse stata restaurata.
Nell’ultimo quarto del secolo si nota anche qui, come nella chiesa di San Giorgio una presenza non troppo bene accetta dalla curia ecclesiastica del Comune che aveva occupato un vano contiguo alla chiesa «ad uso di scuola» provocando le proteste dei religiosi preposti alle celebrazioni religiose. Osservando l’aspetto esterno dell’edificio è possibile leggere abbastanza chiaramente tre fasi costruttive diverse che ci permettono di individuare momenti cronologici successivi. La facciata della chiesa doveva essere originariamente molto più arretrata; infatti, lungo il fianco destro, è ancora ben leggibile l’innesto della muratura più recente, in pietra, che lascia bene in mostra, prima che inizi l’intonacatura, i rinforzi angolari. Questo avanzamento della facciata risulta poi essere in diretta corrispondenza con l’interno dove il soffitto cassettonato termina per cedere il posto ad una copertura in muratura. Le finestre che si aprono lungo il fianco destro ci consentono di mettere in luce un altro particolare costruttivo. Infatti l’ultima apertura, corrispondente alla sacrestia, non solo è di dimensioni ridotte e fuori asse rispetto alle altre che si aprono all’interno dell’unica navata, ma presenta anche una profonda strombatura. E, anche in questo caso, alla modificazione dell’assetto murario esterno corrisponde una modificazione della copertura degli spazi interni, voltati. Volta ben leggibile anche all’esterno da un altro innesto di muratura, che varia non solo per l’evidente intonacatura, ma anche per lo spigolo esterno di chiusura con pietre angolari ben squadrate.
Sicuramente l’attuale impianto volumetrico dell’edificio doveva essere terminato nel 1819, data di compilazione della mappa del catasto Gregoriano, in cui la chiesa viene tratteggiata come un ambiente «a sala» stretto e lungo. La chiesa doveva comunque essere sempre stata di notevole importanza. Infatti nell’Archivio di Stato di Roma si trovano puntuali testimonianze della sua gestione economica. Da un nucleo di documenti che coprono un arco di anni che va dal 1802 al 1814, sappiamo che «la Comunità… ha avuto sempre il peso di mantenere la Ven. Chiesa della Madonna SS.ma dell’Annunziata di questa terra tanto nella fabbrica, e suppellettili, che in quant’altro vi è necessario per il decente ornamento ed officiatura» . Un interessamento questo non certo dettato dal disinteresse visto che tutti i terreni della montagna di Paganico erano diretta ed inalienabile proprietà della chiesa e la Comunità si limitava alla sua ammini- strazione . L’annotazione contenuta nel Registro settecentesco del vescovo Saverio Marini (1779-1813), secondo la quale gli antichi fondi della chiesa di S. Maria erano uniti alla chiesa di S. Nicola, deve perciò considerarsi un momento amministrativo transitorio, giacché fin dall’antichità questa struttura era «ecclesia per se». C’è inoltre da notare che questa chiesa era anticamente molto frequentata dal popolo e, forse, non è un caso che svolgesse un po’ il ruolo di cerniera tra i vari centri abitati visto che una messa cantata era citata tra gli obblighi delle messe del parroco di Paganico: una messa questa che era stata dotata di un legato da parte della famiglia Coluzzi del Castello di Ascrea.

Dato l’estremo stato di deperimento e di abbandono della chiesa gran parte dell’arredo interno è andato disperso o distrutto. Al momento della schedatura, realizzata nel 1977 da Roberta Rezzi per conto della Soprintendenza ai Beni Storici e Artistici, nella chiesa, ancora adibita alla celebrazione, vi erano croci e candelieri sette – ottocenteschi e qualche altro pezzo di arredo ligneo (inginocchiatoi) e mobili di sacrestia ancora in parte conservati. Sono stati, infine, trasportati presso l’archivio storico del Comune dei volumi di salmi mariani e altri testi a stampa del ’600/’700 rinvenuti all’interno dei mobili della sacrestia.

Soffitto ligneo
Parte della navata centrale della chiesa era coperta da un soffitto cassettonato (in parte caduto) che disponeva al centro dei motivi quadrangolari vagamente cruciformi. Lungo le pareti il soffitto era delimitato da una elegante cornice modanata con un motivo a dentelli. Questo soffitto ligneo si inserisce all’interno di un gusto assai diffuso in area sabina e laziale tra il XVII e il XVIII secolo. Ora mentre in genere i soffitti cassettonati danno luogo ad un notevole sfarzo decorativo, dominato dall’intaglio, in questo caso la spartizione degli spazi risulta essere al tempo stesso semplice ed elegante, nella necessità di coniugare economicità e arredo ornamentale.

Tabernacolo
Dietro l’altar maggiore, di recente fattura, in un ambiente adibito a sacrestia si scorge un tabernacolo, incassato nel muro, con una nicchia arcuata affiancata da paraste piatte e con semplici motivi a voluta. La manifattura assai generica di questo pezzo, non troppo dissimile da quelli tardo manieristi, ci potrebbe spingere ad ipotizzare una diversa destinazione d’uso di questo ambiente. Infatti sulla parete di separazione della navata centrale si nota un arco di tamponato che farebbe presupporre che originariamente questo tabernacolo fosse quello dell’altar maggiore. Sulla volta di copertura di questo ambiente si notano anche tracce di affreschi scialbati riconducibili ad un intervento otto-novecentesco.

Affresco raffigurante la Crocifissione 
Al fondo della parete destra della navata, in una nicchia arcuata poco profonda, è affrescata una Crocifissione, fortunosamente conservata finora, nonostante evidenti segni di deperimento, grazie ad una sporgenza del tetto. La scena rappresenta il Crocifisso tra Maria e Giovanni, con piccole figure di angeli che raccolgono in calici il sangue uscito dalle mani e dal costato del Cristo; ai piedi della croce è abbracciata la Maddalena con lunghi, disciolti capelli biondi. L’affresco è terminato in basso ad una fascia di racemi molto semplificati su fondo bianco. L’opera mostra evidenti somiglianze con due affreschi votivi della chiesa di S. Antonio a Collegiove, l’uno ora parzialmente nascosto dall’altare settecentesco addossato alla parete. Si tratta anche lì di due Crocifissioni, l’una con i Santi Liberatore, Stefano, Biagio e Maddalena, l’altra, per quel che si vede, con S. Michele arcangelo ed angeli che raccolgono il sangue di Cristo o sostengono gli strumenti della Passione. È superfluo richiamare gli innumerevoli punti di contatto che fanno ritenere gli affreschi opera di un sesto pittore: si veda anche solo il caratteristico tratto iconografico del segno della corona di spine sulla fronte di Cristo o la soluzione «astratta» dello sfondo con bande piatte di colore giallo e rosso alternato all’azzurro. Sappiamo che Collegiove è contiguo a Paganico al di là del monte Cervia, tanto da aver avuto in passato frequenti contrasti per questioni di confine: qui il rapporto è confermato anche da questi significativi indizi artistici. Dovendo ora delineare la fisionomia del «maestro di Paganico e Collegiove», mi pare si debba pensare ad un pittore che ha visto opere come quelle affrescate da Dionisio Cappelli di Amatrice (e seguaci) a Retrosi (Crocifissione nella sagrestia della chiesa dell’Icona Passatora), a Villa Voceto (Tabernacolo nella chiesa di S. Savina) e a Villa di Filetta (San Michele Arcangelo in S. Maria della Filetta), dandone una traduzione semplificata e popolare (alla maniera degli ex-voto: si vedano quelli affrescati nella chiesa di Retrosi), che fa della linea di contorno il proprio strumento espressivo privilegiato. Anche la fascia che termina l’affresco in basso è la versione impoverita dei fregi di fogliami che delimitano le opere di Dionisio Cappelli. Non manca comunque, al nostro pittore, pur nella sua povertà espressiva, l’attenzione a variare dettagli e tipologie con un certo gusto descrittivo. Per quanto riguarda la datazione, sappiamo che l’artista di Amatrice lavorò nei primi decenni del Cinquecento ed è probabilmente alla stessa epoca o a poco più tardi, che vanno riferiti i dipinti di Collegiove e di Paganico. Sembra, però, che ulteriori elementi di conoscenza sul «maestro di Paganico» potrebbero aversi dallo studio degli affreschi affioranti sotto la sistemazione tardo settecentesca dell’abside della stessa chiesa di Collegiove, affreschi che, a mio avviso, sono riconducibili all’identica mano che ha eseguito le Crocifissioni. Questa decorazione absidale, complessa, appare articolata in campi, dove si accostano a figure grandi di Santi ora non identificabili, piccole scene narrative con episodi della vita di S. Francesco, commentate da scritte in volgare. Negli stessi toni di colore spenti dell’ocra, del verde e del rosso sono dipinte piccole figure di grande vivacità espressiva, anch’esse memori, degli affreschi del Cappelli con le Storie dei Ss. Rustico ed Eleuterio a Borgovelino. La Visita pastorale del 1713 alla chiesa dell’Annunziata di Paganico cita un altare laterale della S. Croce, mentre quella del 1784 specifica: «Nell’altare del Crocifisso vi è dipinto in muro il SS. Crocifisso; eretto e fondato dal fu Gio. Ant. Palmieri senza verun assegnamento di dote e senza alcun obbligo» (Archivio vescovile di Rieti; su gentile segnalazione del dott. Pizzo): veniamo così a sapere che al nostro affresco fu ad un certo punto addossato un altare, coprendone la parte infe- riore e causando verosimilmente le abrasioni orizzontali che ancor oggi si vedono sul dipinto. Dopo gli ultimi lavori di restauro dell’edificio con un intervento, ideato e finanziato nell’ambito del programma dell’Unione Europea denominato “Albergo Diffuso”, è emerso che l’intera parete destra è coperta di cicli pittorici pari a circa 60 metri quadrati, datati 1590, raffiguranti alcuni santi ed ex voto scoperti, sotto una mano di bianco, dalla restauratrice Rita Fagiolo. Gli affreschi sono di autore anonimo, il c.d. “Maestro di Paganico”, che può con ragione definirsi epigono, in versione popolaresca, di Dionisio Cappelli di Amatrice.
I lavori di restauro hanno permesso ulteriori interessanti scoperte nel locale della sacrestia, cella rupestre originaria del complesso, e nella parete di sinistra in corso di esplorazione. (fonte: percorsidellacultura.com)