Vallepietra – Parlare di poesia al di fuori delle metropoli e dei grandi centri culturali è difficile. E più si stringe il cerchio dell’abitato di riferimento più diventa sottile lo spiraglio attraverso cui occorre passare per costruire un discorso poetico. In discussione, di fatto, c’è la stessa utilità della poesia, la stessa relazione che questa antica pratica umana intrattiene con le altre, e con l’immediatezza del vissuto pratico. Si possono, comunque, tentare una ricognizione filologica delle esperienze poetiche in un dato territorio (per Confinelive, Lazio e Abruzzo) e un’analisi interpretativa, per scoprire così che il fare poetico, in verità, viaggia bene anche fuori dai mega-centri; più appartato, più solitario, ma viaggia.
Questa premessa mi serve a introdurre il caso del poeta di Vallepietra Salvatore Mercuri – che ha concentrato i risultati migliori della sua poesia tra gli anni ’50 e i ’60 – per una doppia ragione. Primo, perché il discorso sul poetico in “terra desolata” (per dirla con Elliot) è denso di per sé e in generale; secondo perché un senso del solitario, del confessionale, è tematizzato dallo stesso Mercuri all’interno dei suoi versi.
Certo è fondamentale ricordare il sacerdozio di Mercuri, che dà alla sua poesia, per forza di cose, un afflato religioso, e centralizza la ricerca, o meglio, la garanzia confortante, del divino. Fatto sta, però, che la dimensione di raccoglimento spirituale funziona, qui, anche in relazione all’impianto naturalistico delle immagini e dei riferimenti scelti. La raccolta che ho in mente – e che è la raccolta grossomodo esaustiva della poesia di Mercuri – infatti, si chiama Acqua di polla e svela già dal titolo l’evidenza una tematica naturale, in particolar modo idrica. Questa immagine, quella dell’acqua di polla (cioè dell’acqua appena sgorgata dalla sorgente), è la chiave di lettura dell’intera raccolta: da essa si trae sia il senso di freschezza (la ricerca dell’armonico sonoro e visivo è centrale in Mercuri) sia quello “dimissionario”, che concede cioè ai versi un indirizzo quasi crepuscolare, di topos modestiae. Da questa prospettiva risulta esemplificativo il breve componimento In tono minore, che si chiude con “Mi basta che canti col cuore / pur anche in tono minore.”
Volendo infatti inquadrare Salvatore Mercuri da un punto di vista storico, certo la sua poesia, in confronto a quella nazionale, negli anni ’60 doveva suonare come legata a modelli ormai del passato, che altrove erano già stati superati dalle avanguardie e dalle nuove tendenze, con cui, tra l’altro, lo stesso Mercuri polemizza aspramente, quando, durante una conferenza poi trascritta nel volume, dichiara: “Gli altri, invece, sono semplici imbrattatori di carta, esagitati estensori di parole senza senso e senza spirito. Costoro o sono troppo intimisti – gli ermetici – o sono impetuosi scavalcatori di tempi – i futuristi.” Al di là di questo punto di vista conservatore, comunque, la poetica di Mercuri presenta anche tratti di chiara modernità quando, nella stessa occasione, sostiene che “tutti fanno poesia, anche se non la scrivono in versi più o meno chilometrici, oppure più o meno sincopatici. Dentro al tempo, che scorre ora indifferente ed ora etichettato, ora tranquillo ed ora turbinoso vi è, in fondo, talvolta, per tutti, l’attimo breve della commozione […]”. Si è di fronte, insomma, a una posizione che rielabora reminiscenze pascoliane, certamente, ma forse anche ungarettiane, e quindi in senso lato ermetiche, se la poesia è individuata nell’istante in cui l’uomo – ogni uomo – è di fronte al mistero della “commozione”, cioè del linguaggio con cui l’universo si svela all’emozione; specie se “commozione” lo intendiamo in senso etimologico, e cioè legato al “movimento” generato nell’animo da qualcosa di esterno – che nel caso di Mercuri, questo è certo, è il divino, o quantomeno il divino nell’umano.
Il naturalismo di Mercuri, quindi, che esaurisce quasi del tutto i temi dei suoi testi (in chiave nella maggior parte dei casi analogica, dove le figure naturali valgono come figure morali e teologiche, che spesso svelano il senso occulto o la semplice armonia del mondo), non ha però retorica carducciana, ed anzi, secondo chi scrive, risente anche di una certa lezione dei crepuscolari e degli ermetici. Che ci siano proprio Ungaretti e la sua Universo (“Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza”) dietro il mercuriano “e sta la barca come fosse bara”, visto che entrambi connettono la tematica funebre con un metaforico seppellimento marino? Difficile dirlo, a livello filologico, ma certo stuzzicante in ottica di ricerca dei punti moderni laddove il poeta si confessa conservatore. Non può far male ricordare, poi, che anche i crepuscolari, per lo più, conservavano l’impianto metrico tradizionale, come fa il poeta di Vallepietra, che predilige l’endecasillabo e il settenario; e lo facevano (i crepuscolari) anche quando riducevano la loro poesia a poca cosa, come fa, ancora una volta, il nostro Mercuri.
Certo, qui manca l’abrasiva ironia che era di Gozzano e soci, così come manca l’assolutizzazione della parola ungarettiana. Ma prendendo un punto da ogni parte, la poesia di Mercuri può definirsi come una poesia naturalistica, metricamente “giusta”, che non fa sbavature, eppure risente, internamente, un certo moto energico, che se pure non scombina la gabbia prosodica, certamente è tematizzato in una concezione della vita che oscilla tra godimento di Dio e miseria. Qui, allora, se si vuole riprendere il discorso iniziale del territorio, sta la validità del poeta di Vallepietra, che forse proprio in relazione allo mondo della Valle dell’Aniene, da una parte stretto e solitario, dall’altra incantevole nell’offerta naturale, poteva toccare corde profonde tramite il verso, poteva cercare l’accordo tra l’umano e il celeste attraverso la perfetta consonanza delle cose di cui la poesia può essere massima allegoria. Aveva ragione chi nel ’61 scriveva su Il Tempo che Mercuri è un “Poeta spirituale, senza pose e senza sussieghi: messaggero di gioia, di speranza di beni possibili in terra e di gaudii certi ultraterreni”.
Poeta verso il cielo ma ancorato a terra; e in questo l’ambiguità del suo gioco poetico che, al netto dei compromessi con cui occorre scendere, per forza di cose, a sessant’anni da questi scritti, è felice da sé. Vale la pena, allora, per chiudere, ricorrere proprio ai versi che compongono il Momentum di Mercuri e che assommano le caratteristiche finora sottolineate del naturalismo, dell'”abbassamento” umano e dell’eleganza metrica:
Di sera. Sto solo. Non s’ode
che il pendolo andare.
Mi pare
un tarlo che incide, che rode
la vita mia breve.
Quel tocco monotono, lieve
è un palpito meno al mio cuore
che muore
e rimuore.
Quel tocco non è che un secondo,
ma crolla in quell’attimo un mondo
d’amor, di tormento,
di dolci speranze e di pene.
La vita non è che un momento
e un altro momento che viene.