Autoritratto e ricerca di sé, “Persa Nelle Cornici”: l’esposizione fotografica di Ludovica De Falco
"L'autoritratto è qualcosa di molto personale e intimo per chi lo pratica. Poiché il soggetto diventa l'autore stesso e spesso ci si mette a nudo, si cerca di andare in profondità, scoprendosi in modi sempre nuovi".
Dal 19 Novembre al 18 Dicembre 2022 al Castello Ducale di Bisaccia si può visitare la prima mostra fotografica di Ludovica De Falco dal titolo Persa Nelle Cornici. Fotografa per professione e per passione, l’artista inaugura la sua prima esposizione personale nella quale si possono ammirare sei serie di autoritratti e un autoritratto singolo realizzati tra il 2021 e il 2022.
Ludovica De Falco si è laureata presso l’Accademia delle Belle Arti in Fotografia, Cinema e Televisione, specializzata in Scienze dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Salerno. Inizia ad appassionarsi di fotografia durante i suoi studi, approfondendo poi la pratica dell’autoritratto. Attualmente studia Fotografia pubblicitaria presso l’Accademia Ilas di Napoli e lavora come fotografa e social media manager per diverse aziende.
In Persa Nelle Cornici l’artista naviga tra svariate rappresentazioni di se stessa, riproponendosi in modi sempre nuovi, come ricerca continua della definizione di un proprio stile fotografico. Nella sua poetica dell’autoritratto si rileva un “mettersi in scena” attraverso la creazione di personaggi che riflettono i diversi frammenti del suo essere, racchiusi in una foto.
Per mezzo di quello che viene definito un “autoritratto terapeutico”, Ludovica tenta di metabolizzare ricordi ed eventi: sentimenti che vengono congelati e cristallizzati in una cornice. Nelle sue rappresentazioni si trova in sintesi anche un tentativo di fuga, di evasione dalla realtà in cui, a volte, il significato iniziale delle immagini si perde in una narrazione inaspettata creata dal mezzo fotografico stesso. Il richiamo alle emozioni avviene per mezzo di scelte estetiche precise: ogni serie di scatti ha un filo rosso che può essere la ricerca della luce, la preferenza di un luogo o l’inserimento nella composizione di un accessorio. Il senso dell’intera mostra fotografica assume una coerenza di significato nel complesso delle immagini realizzate.
Conosciamo meglio la fotografa Ludovica De Falco e i contenuti della sua mostra fotografica Persa nelle Cornici.
Come sei arrivata all’autoritratto come genere espressivo della tua fotografia?
“A essere sincera non so bene come sono arrivata all’autoritratto fotografico. Credo soprattutto per un’esigenza, non solo di esprimermi, ma ricerca di un’identità. Poiché ogni volta che si pratica l’autoritratto, e quindi ci si fotografa, si va ad indagare necessariamente se stessi. Sei tu e nessun altro di fronte all’obbiettivo. Dovevo mettermi davanti alla fotocamera e ricercarmi, ogni volta in modo diverso e man mano in modo sempre più consapevole.
Con questa mostra mi sono resa conto dell’evoluzione che c’è stata da quando ho iniziato a praticare l’autoritratto qualche anno fa, fino ad oggi. Scatto in modo più consapevole e il fine artistico è più chiaro e delineato”.
Persa nelle cornici: spiegaci di più sul titolo che hai dato alla mostra
“Ogni titolo che scelgo per le mie fotografie è il frutto di un ragionamento che parte però da qualcosa di molto istintivo. Quando mi sono ritrovata a dover dare un titolo alla mostra mi sono sentita persa, in un primo momento. Perché di base non c’è una finitezza nelle mie foto, indago nelle mie emozioni, nei miei ricordi, nei miei momenti più bui, personalmente non ci ritrovo una risolutezza. Quindi sentendomi un po’persa di fronte a tutte queste ripetizioni di me, così belle incorniciate nei quadri, sono arrivata a questo titolo, a sentirmi persa nelle cornici”.
Quali maestri ti hanno ispirato nella ricerca della tua identità fotografica?
“A livello di ispirazione, avendo studiato fotografia, mi sono confrontata con maestri di ogni genere. Mi sono avvicinata all’autoritratto piano piano, sperimentando sempre di più. Sicuramente devo citare alcune fotografe, nello specifico, due autoritrattiste: Cindy Sherman e Francesca Woodman.
La prima utilizzava l’autoritratto per mettere in scena, spesso travestendosi, usanze e costumi dell’epoca, per denuncia e riflessione sui canoni del suo tempo. La seconda rientra in un tipo di autoritratto molto intimista e delicato, dove si può percepire la fragilità e il mettersi a nudo. Cito anche Bieke Depoorter, molto lontana dall’autoritratto fotografico, ma i suoi scatti mi hanno colpito da subito e ispirato nella ricerca di luci e inquadrature”.
Come scegli il luogo in cui realizzare gli scatti?
“Il luogo è sempre stato, almeno inizialmente, soprattutto logistico. Un po’ per pudore, un po’ perché ancora non sapevo bene dove mi stavo dirigendo, e anche perché molti autoritratti sono stati fatti nel periodo covid, il luogo prediletto era la mia camera, alcune foto addirittura nel bagno perché cercavo un pavimento scuro che doveva contrastare con la pelle. In questo caso sono stata ispirata dal video musicale di Madame “Voce” e ho cercato di ricreare qualcosa di simile, ma declinandolo in modo personale. Sono spesso ispirata anche da film, video o canzoni.
Credo che per fare delle buone foto non serva necessariamente uno studio fotografico (anche se comporterebbe di certo un salto di qualità). Partivo sempre da un’idea visiva, una precisa atmosfera, una luce, e sono arrivata con gli scatti più recenti ad uscire fuori casa e ricercare luoghi più naturalistici come i boschi o dei posti affini”.
Nei tuoi scatti si nota una predominanza di accessori, ricami, perle: quale è il loro significato nella composizione dell’immagine?
“Gli accessori sono legati all’idea visiva che ho della foto che vorrei ottenere. Ma spesso sono dei piccoli suggerimenti che possono diventare o meno la cosa principale nelle foto, come per esempio nella serie di scatti “emozioni in perle”.
L’utilizzo delle perle è stato importante per iniziare questa serie di autoritratti, la cui particolarità è che qui mi “metto in scena”. Volevo creare un personaggio, traendo ispirazione dal cinema, in particolare dai film degli anni 40’ in cui le protagoniste indiscusse erano le cosiddette “donne fatali”. Quell’immaginario, che non mi è nuovo avendo studiato cinema, mi ha ispirato e influenzato molto e ho cercato di dargli una sfumatura quasi cinematografica.
Stesso discorso per la serie di autoritratti “bisbigliano una storia non mia”. In questa serie, ancora di più che nell’altra, mi calo completamente in una narrazione nuova, mi trasfiguro in un personaggio che vaga e si sente perso, anche qui, in parole e bisbigli che narrano una storia che non le appartiene. Di questa serie sono particolarmente orgogliosa perché il concetto e la narrazione di partenza sono stati concretizzati e plasmati in una composizione fotografica.
In questo caso l’accessorio del vestito era l’elemento principale. È nato tutto dalla scelta di un vestito, il quale doveva richiamare un’epoca lontana e calare lo spettatore – subito dopo me stessa mentre mi fotografavo – in un’altra realtà”.
Sei il soggetto delle tue fotografie e fotografa allo stesso tempo: come gestisci questa doppia relazione con l’obiettivo fotografico?
“L’essere fotografa e il soggetto fotografato è una relazione particolare. Ogni volta ci si scopre e ci si riscopre in modi nuovi. A volte può essere un’operazione delicata, perché ogni foto la sento impregnata di me, di mie emozioni, di miei ricordi, quindi, non sono oggettiva nei loro confronti, non sempre almeno. Altre volte è un’operazione importante per affermare in qualche modo la propria identità, con tutte le sue sfumature e con risultati spesso inaspettati. Per me in molte circostanze è stato terapeutico”.
Hai sottolineato che attraverso le tue rappresentazioni troviamo un “tentativo di fuga, di evasione dalla realtà e, a volte, il significato iniziale delle immagini può perdersi in una narrazione che nasce dal mezzo fotografico”. Puoi spiegarci questo concetto?
“Sì, come ho detto un po’ in precedenza, l’autoritratto può essere terapeutico e può essere un mezzo attraverso il quale ci si ridefinisce. Può trasformarci e può trasformare anche eventi e ricordi. Per esempio nella serie “bisbigliano una storia non mia” faccio riferimento a qualcosa che accade senza che io possa controllarlo e alla fine ottengo un risultato diverso da quello che mi aspettavo.
Quando inizio uno shooting o una serie di autoritratti, parto con un’idea che nel mentre può diventare molto diversa. In questo caso avevo in mente un’idea di fragilità, di delicatezza, e che si dovesse percepire un freddo tutto intorno. Il risultato mi ha sorpreso perché non si avverte affatto questa idea di fragilità ma, a parer mio e per chi ha visto le foto, si percepisce più un’atmosfera minacciosa, di pericolo. Successivamente ho trovato calzante questa interpretazione, soprattutto per come mi sentivo, pensando a quello che volevo incanalare in queste foto.
Anche il mio sguardo è risultato essere tagliente, deciso e fermo, tutt’altro che fragile. E ciò mi ha sorpreso molto. Ho tratto forza da questa parte di me che si è rivelata in un momento estraneo alla mia realtà, perché in quel momento ero in un’altra narrazione”.
Come si organizza una prima mostra fotografica? Quali suggerimenti daresti a un fotografo per realizzare la sua prima mostra.
“Bisogna, innanzitutto trovare qualcuno che creda in te e ti dia la possibilità di realizzare qualcosa come una mostra fotografica. Per arrivare ad allestirne una si deve sviluppare un buon numero di opere di partenza, che ti soddisfino e che abbiano una coerenza e mostrino un po’ quello che sei tu. Personalmente, mi sento ancora all’inizio e il mio sguardo va ancora affinato e perfezionato. Ci si deve mettere in gioco però con tutte le ansie e le paure che ci sono.
Quando ho allestito la mostra. e ho predisposto tutti i miei scatti, ho avuto per la prima volta la reale percezione della mia fotografia, del mio essere artista, di quello che ho raggiunto sperimentando e di quello che posso ancora fare”.