Tivoli – La civiltà contadina non conosce la scrittura. La cultura della civiltà contadina – cioè il suo modo di interpretare il mondo e la vita, di costruire la propria etica, mitologia, memoria, politica – è integralmente orale. E come tutte le culture orali, che non possono avvalersi della permanenza dello scritto, trova un espediente per resistere al tempo in quella forma “alterata” di oralità che è il canto. In quanto ritmo, rima, ripetizione, carica emotiva, il canto si presta infatti alle due necessità fondamentali cui la cultura contadina deve rispondere: quella di darsi un ordine nel presente (e qui sta ad esempio l’utilità euritmica del canto durante il lavoro) e quella di trascendersi rispetto al contingente e mantenersi forte nel tempo (e qui sta l’autorappresentazione di una comunità attraverso storie e leggende).
Cogliere questo è il merito principale del libro-disco di Simone Saccucci Dejj’arbole. Canti e storie dalla Valle dell’Aniene, pubblicato da Squilibri nel 2022 e recentemente presentato alla Casa delle Culture di Tivoli dalla libreria La Porta Gialla e dal critico musicale Enzo Pavoni. Animato da uno spirito carpitelliano di registrazione e archiviazione della cultura popolare, ma anche da un desiderio immaginifico di attualizzazione della tradizione, Dejj’arbole, teso tra Montecelio e l’Alta Valle dell’Aniene, è un tassello importante di quel processo di reinterpretazione della propria geo-storia da parte della gente d’Aniene che di fronte alle trasformazioni del contemporaneo sembra essersi fatto ormai improcrastinabile. Saccucci, che canta e suona la maggior parte degli strumenti, e che è accompagnato dalla voce recitante di Erri De Luca, affronta di petto questo bisogno reinterpretante e mette in piedi un lavoro intermediale e eterogeneo, che va dal puro recupero etnomusicologico (come in Nun me curo e Ninna nanna, canti tradizionali della zona) alla riprogettazione narrativa e musicale delle storie passate o del mito (come per Re Anio, storia leggendaria del fiume che chiude significativamente il disco), dallo spoken word di De Luca alla narrazione e teorizzazione delle pagine che aprono il libro («Ecco un altro insegnamento della memoria: ti sussurra che nel posto in cui vivi c’è qualcosa di benefico anche se, sempre di più, non riesci a vederlo»).
Centro di senso di tutto il lavoro è il cuore ontologico dell’esperienza dei paesi, cioè la partenza, lo sradicamento. Una partenza è il nome del brano che apre l’opera, Argentina marchigiana racconta «La storia di argentina e del suo viaggio dal paese di Cupo nelle Marche», Casa mea quella di «un cavatore che perde casa a causa del suo lavoro in cava». Una tragicità – viva anche nel contemporaneo – che permea l’intero disco e a cui Saccucci, risponde doppiamente, come narratore e musicista: da una parte attraverso la metafora centrale di Albero e foglia, dove l’immagine vegetale (volendo anche ungarettiana) condensa tanto un senso di precarietà quanto quello di una mutua alimentazione, tra luogo e individuo, memoria e persone; dall’altra proprio con lo studio del suono. Cercare – ma anche proseguire con nuove parti, e coerenti – il patrimonio più immateriale di una comunità, quello appunto dei canti, vale insomma come sforzo di intercettarne la ricchezza, ma anche l’invisibile evoluzione, ciò che più ci rende difficile (e perciò urgentissimo) mantenere salda la dignità antropologica del paese di fronte alla delocalizzazione universale.