Gerano – La realtà di Gerano, tutta da vivere, è un comune italiano di 1 170 abitanti della città metropolitana di Roma Capitale nel Lazio. Questa la sua storia:
“Estesi boschi di castagno ed oliveti circondano l’ameno colle di Gerano, prospiciente la pianura. Le case si adagiano su un terreno tufaceo, morfologicamente simile alla greca Montagna delle Gru (Gherania), da cui il nome di gheranos: Gerano.
L’origine storica di Gerano s’intreccia con quella più antica della Valle del Giovenzano, in cui fin dall’Alto Medioevo prende il nome di Trellanum (prima vico, poi colonia, e infine massa), divenendo il centro terriero e boschivo più importante. In questa terra di confine, abitata inizialmente dai Latini, confinante in parte con i Sabini e con gli Equi, Roma insedia la cittadina di Trebula Suffenas, fiorente dal III secolo a.C. al IV secolo d.C..
Con la decadenza dell’Impero Romano e la scomparsa del municipio di Trebula, i cittadini riguadagnano le sorgenti del Giovenzano, stanziandosi presso la Domusculta o “Curtis Domnica” di S. Anatolia (VI secolo). Dai villaggi sparsi sulla massa Giovenzana viene a costituirsi il vico Trellanum, capoluogo della colonia omonima, parte più fertile e strategica della massa. Nel processo d’incastellamento svoltosi tra il IX e il X secolo, Trellano (936-1051) prima convive e poi travasa i suoi abitanti “trellanenses” sul vicino monte Giranum, già castrum dal 21 luglio 1005.
In tal modo gli annosi contrasti tra il vescovo di Tivoli e l’abate di Subiaco per il possesso della pingue massa Giovenzana si riversano sul castello di Gerano. Nel 971 s’inserisce nella controversia anche la comunità dei monaci di S. Cosimato (Vicovaro), rivendicandone dei diritti; a partire dal privilegio di Giovanni X (926) e del breve di Marino II, si moltiplicano i documenti emanati dai Papi o principi in favore dell’una o dell’altra parte. Gli homines trellanenses-giranenses sanno abilmente sfruttare la rivalità dei feudatari, riuscendo ad emanciparsi prima degli altri coloni della massa e conquistando il diritto alla libera conduzione dei terreni (alodia). I feudatari non desistono, e nel 1077 Gerano viene divisa in tre parti: due castellanie ecclesiastiche (vescovile ed abbaziale) ed un’oligarchia sorta dalla sottrazione di beni delle precedenti, operata dal campanino Lando di Civitella.
L’Abate Giovanni V, della famiglia degli Ottaviani, reagisce fortificando il poggio Marino per stringere d’assedio Gerano e poi, sborsate 150 libbre d’argento, ne riprende la metà occupata. Vi costruisce un palazzo, una torre ed una cappella privata sulla parte alta del centro storico. Il gesto non viene gradito dal vescovo Adamo di Tivoli e, dopo alterne trattative, il Papa Gregorio VII (1077-1078), già a conoscenza come nunzio della controversia geranese, decreta: “che Gerano resti sempre diviso in due castellanie, ambedue i prelati vi possano liberamente accedere e difendersi e si impegnino ad ultimare la costruzione della Rocca (palazzo e torre)”. Dopo il ladrocinio di Bertraimo nel 1112, ed un nuovo assedio da parte dell’Abate Giovanni, il paese torna allo statu quo, confermato dalla bolla di Pasquale II (1115); gode quindi di una breve parentesi di tranquillità durante il periodo del vescovo Manfredo (1110- 1119), benedettino come Giovanni. Con l’abate Pietro IV (1123-1145), seguono nuove lotte, ambigui approcci di pace (1126) ed un improvviso attacco e distruzione del poggio di Casapompuli (1128), nel frattempo costruito e sorvegliato dai Tiburtini sul colle antistante Gerano. Finalmente, nel 1145, l’abate Rainaldo giura al conte Rainerio di riconsegnare tutte le decime e i beni tiburtini in territorio geranese; l’abate Simone ne ratifica l’atto firmando la pace nella chiesa di S. Anatolia. Tra i testimoni figura il notabile Giovanni di Gerano, discendente di Lando.
È il 16 maggio 1169: esattamente due secoli e mezzo dopo il sorgere dei primi conflitti per il possesso della massa giovenzana e del castello trellano-geranese. Gerano, paese a lungo conteso, seguiterà ad essere ambito per altro breve tempo, cioè fino all’estinguersi delle forze feudatarie e all’affermarsi della propria autonomia comunale.
Questa in principio si coagula attorno ai boni homines, ai rappresentanti del popolo (il comestabile e i massari), ai responsabili dei due feudatari (i castellani) e ai capi delle insorgenti corporazioni di artigiani, tutti impegnati a difendere il proprio territorio e lavoro e a sottoscrivere ogni anno l’assisia o convenzione delle pretese del padrone.
Sintomatica è la convocazione del popolo in Piazza (S. Maria) del 22 agosto 1327, da parte dei due castellani Giacomo di Affile e Pietro Luzi, contro la guerra scatenata da Mattia di Antiochia, discendente di Corradino di Svevia e signore del feudo di Anticoli; come anche la convenzione e le prestazioni di servizio dovute in denaro o in opera al padrone del 1436, dove vi partecipano il castellano Bartolomeo Ferrari, il contestabile Bartolomeo Magistri Pauli, i massari Buzio e Antonio Ciani e Giovanni Palmeri, il notaio Benedetto di Cecco Magisteri Pauli per le imposte sublacensi e a garanzia del popolo i commissari Buzio Ciani e Andrea Suffie (eletti per la circostanza). Con la promulgazione degli Statuti di Subiaco del card. Giovanni Torquemada (1455), anche Gerano redige un corpo di leggi che ne tutela le consuetudini ed il patrimonio agricolo-boschivo-tessile-artigianale. E anche se la copia pervenutaci è tardiva (1646), cioè del tempo del contestabile Bernardino Maturi e dei massari Bernardino Zielli e Giacomo Pisanelli, in esso le varianti apportate in quell’anno non modificano l’ordinamento giuridico-civile del paese.
I centoquattro articoli di cui si compone, sanciscono l’accurata vigilanza per il rispetto dell’abitato, delle colture agricole e boschive, delle fontane, del territorio, e dei valori della tradizione socio-religiosa. In sintesi, le leggi riflettono le due grandi risorse del territorio: coltivazione dei terreni (prati, orti, vigne, terreni a canapa, lino, canne, fieno, grano, miglio, spelta, avena, farro, ecc…) e sfruttamento dei boschi; anzi 3/4 degli articoli vertono sulla salvaguardia del demanio boschivo e alberi da frutto (legna, ceppi rocchiati, massoni affacciati, tavole piane e massaccioli, filagne e picchetti; mele, pere, nocchie, fichi, olive, castagne, querce, farne, cerri, ecc…).
Sul versante religioso, l’impulso del Concilio di Trento raccolto prima dai vescovi tiburtini (v.: Andrea Croce), ai quali Gerano era ancora legato per la giurisdizione episcopale, poi dai card. Abati Commendatari con l’erezione dell’Abbazia Nullìus nel 1638, sprona e cementa il paese attorno alle due chiese parrocchiali e loro istituzioni, registrando anche un forte incremento economico e demografico; basti pensare che dal 1674 (Sinodo del Card. Carlo Barberini) al 1774 (Visita del card. Giovannangelo Braschi, futuro Pio VI), la popolazione si raddoppia passando da 650 a 1357 persone. Infatti, i commendatari per lo più cardinali e membri di famiglie nobili (Borghese, Colonna, Barberini, ecc..) promuovono con decreti, ordinanze e sacre visite la vita religiosa e civile del piccolo centro fino all’annessione nel 1752-53 al Stato Pontificio. Già da tempo operano a S. Maria le Confraternite del SS.mo Sacramento e del SS.mo Rosario, poi inglobate da quella della Madonna del Cuore; all’Annunziata, quella omonima, a favore dei poveri, ammalati e pellegrini dell’Ospedale e la dotazione di 10 scudi alla zitella; a S. Lorenzo stanno sorgendo quella dei Suffragi, dei Cinturati di S. Monica e di S. Rocco.
Circa gli edifici sacri: di poco conto risultano le prime modifiche operate a S. Maria, in parte ordinate o registrate sotto il governo del card. Antonio Barberini nel 1640, come l’abbattimento del malandato vecchio campanile, sostituito da uno nuovo in fase di costruzione (v. l’attuale) e la segnalazione di un’infelice condizione della romanica chiesa del sec. X ridotta ad uno sgraziato trapezio; più consistenti i lavori del 1675 sotto il card. Carlo Barberini, che pur di ottenere un minimo ampliamento richiede l’abbattimento della casa parrocchiale.
La prima chiesa, invece, ad essere completamente ristrutturata ed ampliata, per effetto dell’aumento demografico, è quella posta fuori della porta Maggiore, cioè S. Lorenzo (XI sec.), che non presenta difficoltà di espansione, con progetto di Giulio Camporesi e capomastro G. Francesco Fontana, negli anni 1786-1797. Poi nel 1851, si trasforma ed ingrandisce S. Maria, con disegni e progetti di G. Valadier (1835), con prelievi in loco del figlio Luigi M. Valadier, l’abbattimento di alcune case e la finale realizzazione dell’arch. G. Castagnola e del capomastro Liborio Capitani. Sui muri perimetrali di questi edifici (compresi quelli di S. Anatolia) vengono incorporati reperti archeologici romani, rinvenuti negli antichi siti del territorio. Medesima sorte capita alla chiesa di S. Anatolia (VI sec) tra il 1858 e il 1893, divenuta troppo angusta per le folle che nei giorni 9-10 luglio, per la ricorrenza appunto della patrona e della fiera, confluiscono al santuario geranese.
Due incisioni del pittore inglese Edward Lear (1838) fotografano sia la santa (copia del Bombelli) che l’afflusso dei commercianti e pellegrini, accampati sul prato antistante. Intanto, nella chiesa arcipretale di S. Maria, si è venuta a sviluppare una particolare devozione da parte dei geranesi verso la Madonna del Cuore, (tra l’altro insigne dipinto di Sebastiano Conca), pervenuta in paese nel 1729, in occasione delle missioni predicate da due padre gesuiti, Ottavio Ruschi e Giovanni B. Crivelli. L’attaccamento e la speciale venerazione mariana dei geranesi portano, tra l’altro, in breve tempo all’allestimento e all’omaggio dell’originale Infiorata; in onore della Madre di Dio, è già festa il 26 aprile del 1738 e la sacra Congregazione dei Riti confermerà il tutto nel 1742. Al papa Pio VI, che in quanto card. commendatario Giovanni Angelo Braschi aveva visitato e venerato la Madonna del Cuore, Gerano dedica una lapide commemorativa proprio sotto l’immagine “miracolosa”; e questi una volta papa, elargisce preziosi arredi sacri alla chiesa di S. Maria e nel 1783, l’indulgenza plenaria ai pellegrini devoti di S. Anatolia.
Il 1729 è l’anno della venuta della Madonna, e anche quello in cui muore a 74 anni, fra Tommaso da Cori (1655-1729), per noi il Beato Tommaso, dichiarato Santo da papa Giovanni Paolo II (l’11 dicembre 1999) e guardiano del convento di Civitella; costui predilesse i geranesi non solo in vita, per il suo intenso apostolato svolto a Gerano, dove spesso risiedeva presso la famiglia Masci (ora Timidei), in via del Palazzo, ma anche dopo morte. Infatti tra i 25 miracoli da lui operati, tre avvennero a favore dei geranesi e di questi, due vennero utilizzati per la causa di beatificazione dell’ “Apostolo del sublacense”.
Nel 1774, il Consiglio Comunale decide di costruire una pubblica fontana nella piazza presso la chiesa di S. Lorenzo “per condurvi l’acqua detta di Leo per beneficio del pubblico”; nel 1760 si chiede al Congregazione del Buon Governo un finanziamento per la costruzione di un nuovo locale per un pubblico archivio. Nel 1809 i poveri del paese si rivolgono direttamente al Papa trovandosi “nelle massime angustie per la sospensione dell’uso delle Macinette a mano dette molelle, per la mancanza delle quali sono costretti il più delle volte ad andare a dormire senza l’uso del pane”; infatti questi macchinari manuali per la macina del grano erano stati proibiti dal subappaltatore del macinato Alessandro Lupi.
La supplica dei geranesi dichiarata veritiera dall’arciprete don Luciano Lelli e dai pubblici rappresentanti, venne accolta dal pontefice Pio VII (udienza del 22 aprile 1809) che, tramite il card. Falzacappa, ordinava la restituzione e l’uso delle macinette. La carenza di mole (se ne registrano solo due e per di più tardive) legata alla scarsità di corsi d’acqua, causerà noie ai geranesi con i Carabinieri, anche subito dopo l’unità d’Italia nelle “lotte per il macinato”. È merito del card. diacono Paolo Orsi Mangelli rendere percorribile in carrozza l’Empolitana, al tempo della sua nomina a presidente della Comarca e pro-presidente della Congregazione del Censo nel 1835.
A Gerano il cardinale aveva dato in sposa sua figlia Chiara (avuta dalla moglie veneziana Elisabetta dei conti Valmarana) a Bonaventura Manni e spesso vi soggiornava, come anche il figlio Francesco, “per la pace e amenità di queste colline”.
Nel 1887, a S. Anatolia ad accogliere il card. Monaco La Valletta, con il popolo le autorità ed il clero, suona la banda musicale già costituitasi come società da alcuni anni, e alla quale l’amministrazione comunale inizia a far pervenire il suo contributo sia per l’acquisto degli strumenti che per il sussidio al maestro (1886), insieme a quello versato per i maestri delle scuole elementari, ritenendo l’attività idonea all’educazione e alla cultura.
A questo punto, prima di segnalarvi altri “soggiorni” in paese, ascoltiamo alcuni cronisti del tempo.
- G. Moroni (1854) riferisce: “non di spregevole posizione ove è collocata questa terra antica, che sul tufo venne edificata, un aere mediocre respirandovi, stanziata da persone rispettose che sommano il numero di 1.200, ai campestri lavori, all’arti ed al traffico applicate… Ubertosissime sono le campagne, che consistono in amene colline ed in estesa pianura da molte acque continuamente innaffiate”.
- A. Palmieri (1887): “alcuni del popolo si industriano nel commercio; e dentro il paese vendonsi pannine varie, chi traffica sul carbone e molti sulle legna segate di castagno, altri nell’allevare i filugelli, bachi da seta, e le sete di Gerano sono assai belle e morbide ed alla Capitale più care di altre si vendono. Gli abitanti sono per la maggior parte agricoltori e producono vino, olio, patate e cereali. Grande festa è per S. Anatolia… in suo onore si allestisce una fiera e in tale occasione si aprono caffè, trattorie, osterie, botteghe diverse e si tiene anche una tombola” (circa la genuinità dei prodotti e delle merci scambiate in fiera, il consiglio comunale si era interessato con un “regolamento” nel 1856).
- L. Mariani (1793-1855) riporta una notizia inedita: “…crebbe il malumore allorché nel 24 giugno 1739, fu pubblicata la rigorosa proibizione del tabacco…tumultuarono Marano e Agosta; Gerano e Cerreto si posero in aperta sedizione, e seguitarono a coltivarlo a viva forza. Birri ne andavano per arrestare i contravventori, ma quei popolani si armarono, si opposero, e i birri fuggirono. Spediva allora il governo di Roma una compagnia di soldati Corsi. Gerano e Cerreto fortificavansi”. Ai primi scontri si intromise il Card. commendatario “procurando una generale amnistia, Gerano e Cerreto tornavano al buono”.
Nel 1798, con l’avvento della Repubblica Romana, i francesi razziano il paese di tutti i preziosi in nome del loro motto “libertà, religione, fraternità”; rastrellano 155 scudi da cedole obbligazionarie e 35 libre di argento dalle chiese, lasciando bontà loro, per paura di una sommossa del popolo, il reliquiario argenteo della protettrice S. Anatolia.
Nelle lettere indirizzate dal presidente G.B. Tomasetti e dal pretore G.M. Bagnani al “Cittadino arciprete d. Luciano Lelli”, si fa notare al sacerdote che sanno “con certezza che non ancora tutto è stato consegnato nelle loro mani”.
La decantata ospitalità dei geranesi, verso la fine dell’ottocento, viene messa a dura prova dall’apparire di un nuovo sito topografico: “La Morra dei Briganti”. Ed è così, infatti, dopo aver dato stanza alla guarnigione dei soldati abbaziali presso la Torre, ai papalini al Palazzo signorile nella via omonima, ai Carabinieri nella caserma in Piazza S. Maria (o appunto detta dei Carabinieri), si permette anche ai banditi di avere un loro un punto di incontro in contrada bosco Caratello, nei pressi del paese.
Questi boschi hanno sempre rappresentato la via d’uscita più sicura verso il confine del regno di Napoli, situato poco oltre i monti Simbruini. I briganti avranno pur avuto le loro buone ragioni nel combattere le forti disuguaglianze sociali dell’epoca, ma è certoche i loro mezzi non erano di quelli raccomandabili!
Infine, la sera dell’otto settembre del 1860, dopo la disfatta di Mentana, una colonna di 600 Garibaldini, guidata dal colonnello Orsini, transita per Gerano, anche essa diretta verso il napoletano; i 40 Ufficiali prendono alloggio nelle migliori abitazioni, gli altri saccheggiano la caserma dei pontifici, incendiano l’archivio comunale, gettando i volumi dalle finestre e custodiscono i propri cavalli e muli da trasporto dentro la chiesa di S. Lorenzo.
In chiusura, avendo toccato per sommi capi alcuni dei fatti più salienti, fino al secolo decimo nono, spuntiamo anche una lancia a favore di tanti amministratori pubblici che hanno servito e retto lealmente, per quasi mille anni, la comunità geranese. Nel 1700 il consiglio comunale si componeva di un contestabile, due massari e 24 consiglieri; nel 1752, con lo Stato pontificio, i consiglieri scendono al numero di 20; con l’Unità d’Italia (1770) al numero di 15; dalle straordinarie assemblee in piazza, si passa a saltuarie convocazioni in casa del contestabile o poi nella sala comunale. Negli ultimi anni del novecento, viene a distinguersi il commissario-sindaco Giovanni Narcisi (1883-1896), che istalla l’attuale fontana in Piazza del Mercato (oggi Vittoria), convogliandovi l’acqua delle Mandrelle; sistema le fontane di Ciocio, di Leo e fosso della Mola; cura la rete fognaria interna, costringendo i cittadini all’allaccio; pavimenta la rete stradale urbana con selci di tufo locale; struttura ed amplia il nuovo cimitero oltre via dell’Immagine o Subiaco; aumenta i “fanali” di illuminazione notturna da 16 a 33; costruisce la via rotabile per Gerano transitando sulla Fontana Vecchia e costruendo il muro sull’ingresso del paese (odierno forno); allarga le strade rurali per il passaggio dei carri; infine, realizza il muro di sostegno sulla piazza di S. Lorenzo e quello di Costa del Muro, curando i ribassi alle imprese e assistendo personalmente ai lavori. Per tali motivi, lo ricordiamo e onoriamo, includendo anche tutti gli altri laboriosi amministratori non citati.
Ad altri il compito di narrare gli anni lieti e tragici del 2000, nei quali Gerano offre il suo contributo di sangue di gloriosi eroi nelle varie guerre, specie nel primo (1915-18) e secondo conflitto mondiale (1940-45); è governato dal regime fascista e soggiace all’occupazione tedesca; paga il suo scotto per la fame con l’emigrazione anche all’estero, il pendolarismo e lo spopolamento causati dalla flessione dell’agricoltura e l’abbandono totale dei boschi a vantaggio dell’industria e del gas; subisce letali scosse di terremoto nel 1915 (13 gennaio) e nell’anno 2000 (11 marzo e 27 giugno), ma ha anche triplicato la sua area urbana e rete viaria, cresciuto il tenore di vita, ristrutturate le chiese, ampliato il cimitero, edificato l’asilo, le scuole, il municipio, il campo sportivo, l’area artigianale, metanizzato il paese, e aggregato nuove associazioni e forte della sua tradizionale laboriosità e fede cristiana sta ricostruendo giorni migliori.
Ricerche effettuate dallo Storico Don Giovanni Censi – fonte sito web del comune.