Tivoli – Cosa lega due dimensioni apparentemente così distanti come la fotografia e il buddismo? Cosa lega una tecnica occidentale e moderna incentrata sull’immagine e un’antica filosofia orientale? A queste domande cerca di rispondere, secondo la propria esperienza, il fotografo Raimondo Luciani, con il libro Appunti di buddismo e fotografia (2019), recentemente presentato – tra l’altro – nello Spazio Fotografico di Tivoli, appena inaugurato proprio da Luciani.
Con uno stile piano e colloquiale, nonché intermezzi fotografici molto suggestivi, Luciani racconta il suo avvicinamento alla fotografia e al buddismo (precisamente al filone di Nichiren Daishonin) e poi i possibili intrecci tra questi due. La natura di “appunti” del libro, poi, espressa fin dal titolo, comporta una scrittura positivamente frammentaria, che permette di muoversi tra una dimensione più teorica ma non per questo ostile al lettore profano di fotografia e buddismo, e una più personale, di condivisione della propria esperienza, elevata, però, proprio a centro nevralgico della connessione tra fotografia e buddismo.
Quanto al primo aspetto, particolarmente rilevante risulta il capitolo La grande illusione, rivelatorio nel capovolgere la concezione comune di fotografia: «La fotografia, nonostante la sua potenzialità di descrivere in maniera più oggettiva della nostra vista, parte già con una serie di presupposti che ne limitano l’obiettività, ma questo non è assolutamente un aspetto negativo, anzi, è ciò che la caratterizza e la fa diventare uno strumento atto a descrivere la realtà in infiniti modi diversi e, in quanto tali, potenzialmente degni di interesse.» Segue poi l’analisi dei nodi che effettivamente svelano questi aspetti, come il fatto che la fotografia limita lo spazio percepito o trasferisce nel bidimensionale il tridimensionale.
Quanto agli aspetti autobiografici, poi, colpiscono i racconti quasi surreali di Luciani, ma seguiti sempre con l’ottica – buddista? – di quieto stupore. Così il racconto dei Luoghi del cuore, tra cui spicca un “quasi” luogo, cioè un albero, che l’autore vede dalla strada, decide di fotografare e insegue (sic!) per riuscire ad avvicinarlo. Oppure il rapporto con la musica – altro interesse centrale di Luciani – che lo porta con molte peripezie a entrare in contatto con musicisti di fama internazionale tipo Brian May e Dominic Miller.
Ecco, questo quieto stupore spinge il lettore dentro una concezione dell’esistenza in cui tutto, anche l’assurdo, è in uno stato di grazia armonica, e sia i capitoli più autobiografici che quelli più teorici (di teoria fotografica o buddista, come Il non dualismo e Materia ed energia) trasmettono questa riappacificazione con le cose. Sta lì, allora, l’incontro tra buddismo e fotografia: la tensione autentica verso l’altro, la necessità di “essere”, in certo senso, l’altro, di coglierne il quid nell’attimo in cui ci si manifesta, sia in termini di rappresentazione della sua immagine (che diventa a questo punto testimonianza di qualcosa di più grande, realmente tridimensionale) sia in termini di fusione con l’unità che ingloba il sé e l’altro.