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La musica celebra Santa Cecilia, l’editoriale del prof. Luigi Poggiogalle

Tivoli – Oggi 22 novembre si celebra la festa di Santa Cecilia, patrona della musica, ricordata in questi giorni con concerti, in particolar modo, delle benemerite formazioni bandistiche. La musica è veicolo di pace. Nell’orchestra, come nelle bande, le diverse linee strumentali convivono e concorrono a un discorso unitario che il maestro ispira e modella: l’armonia nella pluralità delle voci; l’esempio musicale di una società che prospera con il contributo delle individualità che si ritrovano insieme nell’ascolto reciproco.

Per questa ricorrenza, chi scrive, fiducioso nell’offrire al lettore-spettatore spunti di riflessione, intende soffermarsi sul ruolo e sulle caratteristiche del direttore d’orchestra. Occorre fare subito una premessa di ordine generale. Se non si interviene dalle fondamenta del nostro sistema educativo, sarà davvero difficile avere, nel prossimo futuro, un pubblico – oltre che appassionato – consapevole di ciò che ascolta e della interpretazione che si dà del lavoro proposto. Sotto questo profilo, si sente la necessità di riaffermare che, nella scuola secondaria di I grado, l’Educazione musicale – che non è “Evasione musicale” – contempli effettualmente e la pratica musicale (meglio se corale) e la conoscenza della Storia della musica, che poi significa conoscenza dei generi, delle forme e dei grandi Autori. Dovrà poi colmarsi la grave lacuna dell’assenza, nei licei e negli istituti tecnici ad indirizzo turistico, di una materia gemella della Storia dell’arte: proprio la predetta Storia della musica. L’Italia è letteratura, architettura, scultura, pittura, musica, cinema e moda. I nostri Conservatori avevano piani di studio – si fa riferimento al vecchio ordinamento – concepiti con razionalità e competenza; occorreva aggiornarli alla letteratura musicale contemporanea e arricchire alcuni insegnamenti principali (le cosiddette “scuole”), penso a quello di Tromba, con la materia indicata con la dicitura «Pianoforte complementare» ove, appunto, non prevista. Nessun musicista può dirsi veramente tale se non sa almeno suonare la scala – ad exemplum – di Do maggiore al pianoforte, degli strumenti il re. Oltre al fatto, nello specifico dell’insegnamento della Tromba, che quella che si studia maggiormente è tagliata in Sib. Ciò porta l’allievo a registrare nella mente non i suoni reali – quelli in Do -, ma quelli scritti e suonati con lo strumento in Sib. Su questo aspetto non si è riflettuto abbastanza. Rectius, per nulla. Trasformare, con legge 508/99, i corsi conservatoriali con diploma accademico a ciclo unico in corsi da intraprendere dopo la scuola secondaria di II grado con diplomi accademici di primo e di secondo livello, aventi il valore degli studi universitari, si è rilevato errore storico e di sguardo prospettico, oltre che di impostazione complessiva. Nella musica, come nelle altre arti performative, così come nelle lingue, così come nelle scienze, le basi sono tutto. Una cattiva impostazione inficerà, se non adeguatamente corretta – cosa che può costare, comunque, un’immane fatica sia per il docente che per il discente -, una cattiva impostazione inficerà, dicevo, il buon percorso musicale dell’allievo. Ciò appare preclaro nel canto, ma ben si attaglia ai diversi insegnamenti musicali, ed insegnamenti tout court. Quindi la forza didattica del Conservatorio, la meraviglia della sua offerta formativa, consisteva nel prendere l’alunno “da zero” – come gergalmente si suol dire – e portarlo ad un livello di eccellenza: poter suonare, con valentìa, anche qui ad exemplum, i più difficili pezzi solistici, per gli strumentisti; concertare e dirigere Sinfonie per i direttori d’orchestra; saper scrivere Variazioni – e se la musica fosse tutta un’infinita variazione? – per i compositori. I corsi avevano costi contenutissimi: diritto allo studio, di nome e di fatto. Lo studio nelle scuole pubbliche abbatte barriere – la  scuola deve essere un luogo di solidarietà, non di esclusione; deve formare e non selezionare – lo studio nelle scuole pubbliche abbatte barriere, dicevo, tra le classi sociali ancora fortissime nel nostro diseguale Paese, permette al figlio dell’operaio di poter sedere accanto al figlio del capitalista, magari di superarlo nel rendimento scolastico, perché un cognome illustre non significa superiori capacità individuali del soggetto, e l’uomo si misura per ciò che è, e non per ciò che dice di essere; per il suo pensiero, per le sue idee, e non per ciò che ha ricevuto in dote o millanta di sapere. Anche perché la distribuzione del genio tra gli umani ad opera della Natura – per i credenti dono di Dio – ha criteri che sfuggono al nostro affannoso e disperante tentativo di catalogazione. Ed è invece, forse, solo destino che si compie. Torno al tema centrale della scuola per sottolineare come essa debba sviluppare negli alunni la ricerca di un pensiero critico che nasca dalla conoscenza; conoscenza che ha un peso diverso da un’opinione frutto di un semplice «io la vedo così» o «io lo sento così». Quale grado di profondità può avere un giudizio su un’opera d’arte se di questa non conosco lo specifico linguaggio? L’ascoltatore chieda poi all’interprete (vorrei dire: pretenda), che quest’ultimo visiti i testi con scrupolo, dedizione, studio, talento e conoscenza. Interpretare vuol dire disvelare. Concorda con me l’insigne Paolo Gallarati – l’8 novembre scorso ha festeggiato i 50 anni di collaborazione con «La Stampa»! –, chiosando nel limpido seguente modo: «Interpretare vuol dire disvelare, senza però prendersi troppo sul serio, nella consapevolezza che l’interpretazione è solo una tra le tante possibili, purché mantenuta entro limiti precisi di oggettività». L’interprete – il frutto della sua lettura dovrà essere un felice incontro di pensiero e cuore – dovrà porsi come obiettivo quello di restituire aspetti, facce di quel prisma chiamato opera d’arte. Dobbiamo riflettere sul far musica come espressione di «un pensiero che si fa suono» (Lorenzo Tozzi), che dà emozione, spinge a riflettere, tocca le corde dell’animo umano. Il musicista come artista che ricerca sempre, mai pago, tecnicamente ferrato, studioso indefesso, inventore sorprendente, forgiatore tenace di sonorità caleidoscopiche. Per ricercare e ottenere colori servono talento e insieme studio e sicurezza; sicurezza che nasce dalla bravura. Dovrebbe il musicista avere più frecce al suo arco. Soprattutto se il suo percorso è stato serio. Studiando a dovere, ad esempio, la Storia della musica. Mi ripeto: i vecchi ordinamenti dei Conservatori – concepiti spesso a regola d’arte – andavano aggiornati nei programmi e nelle materie complementari e non stravolti (esempio: un diplomato in tromba terminava gli studi senza aver suonato mai il pianoforte!). Fondamentale che un grande docente ti segua dall’inizio: senza basi solide nulla di valore si costruisce. Ma qui il discorso si fa lungo…

In Italia bisognerebbe poi riflettere lungamente sul fatto che in diverse zone del Paese manca un’adeguata offerta didattica per gli strumenti ad arco – il Quartetto d’archi è il fulcro del fare musica insieme – e sul declino culturale musicale in cui ci siamo avviati. Occorre pretendere di più: cartelloni meno pigri e musicisti con maggior senso dello stile. Per fortuna non tutto è perduto: ci sono straordinari professori d’orchestra, giovani preparatissimi, orchestre di assoluta qualità e di respiro internazionale. Ne dobbiamo essere orgogliosi. Sono il nostro vanto. Bisogna servire la musica e non servirsene. È d’uopo ora focalizzare, da parte di chi scrive, il discorso sul direttore d’orchestra, figura che deve conoscere la Composizione. Conoscere la Composizione non significa essere un compositore. Ribadisco, ciò deve essere un prerequisito per il direttore d’orchestra. Sulla tecnica direttoriale apriremmo un discorso lungo. Mi fermo a questa considerazione: il gesto – e non è un paradosso, anche l’assenza di gesto per alcune battute – il gesto, dicevo, del direttore d’orchestra deve essere sempre decodificabile. Consideriamo che la bacchetta è ben visibile anche da una distanza considerevole, come quella che separa la galleria di una teatro dal podio. Gli effetti negativi di un maestro senza tecnica possono dunque essere pesanti, ma le orchestre salvano i direttori incapaci, perché prevale lo spirito di sopravvivenza: procedono con il “pilota automatico”. Ma questo non risolve il problema, anzi lo aggrava, perché sembra accomunare il maestro preparato, che conosce i colpi d’arco – le arcate sono pensiero musicale -, è confessato e comunicato, ossia possiede una tecnica di base (attacchi, chiusure, schemi metrici, corone, passaggi ad un diverso andamento), con chi arronza. La tecnica direttoriale si può apprendere. Il fuoco interiore è un destino. Dunque senza la conoscenza della Composizione, non esiste direttore.

Della Fuga, ad esempio, il direttore occasionale non capirebbe nulla. Fuga da costui dovrebbe prendere lo spettatore. Il maestro deve saper suonare il pianoforte: potrà preparare la compagnia di canto proprio sedendo al pianoforte. Suonare è più difficile di far finta di dirigere. Tante sono le qualità richieste al vero direttore d’orchestra. In primis, ogni aspirante direttore studi con serietà Armonia, Contrappunto, Orchestrazione, Strumentazione e sarà già un onesto Maestro. Se poi non dovesse avere il “braccio”, dovrà prendersela solo con la Natura. Mi ricorda Fabrizio Dorsi: «Il “braccio” non è solo un dono di Dio o della natura. La tecnica gestuale si può apprendere con l’intelligenza, l’applicazione e soprattutto con un buon docente».  Un direttore, soprattutto se giovane, dovrebbe con la sua tecnica gestuale rimandare sempre a una scuola precisa. Sarebbe un discepolo da stimare, al quale si chiede di non essere un imitatore, ma un interprete consapevole, che alla tecnica di riferimento unisce la propria personalità. Quando esiste il calco senza assimilazione, la lettura del pezzo è sempre debole. Il gesto del direttore sia chiaro ed efficace, sempre nella musica; l’intelligenza si sposi al talento. Nella partitura c’è tutto. La corrispondenza tra gesto e suono deve essere assicurata, anche – e non sembri paradossale – in assenza del gesto stesso. È questa la relazione a fondamento per capire questa disciplina, dove – ahimè – si può bluffare, magari andando alla ricerca del fenomeno mediatico. Gesto e suono: risolutiva endiadi. Sempre il maestro si volga alla ricerca, all’approfondimento, allo scavo interpretativo, con un pensiero profondo e meditato. Salirà sul podio forte della sua preparazione, consapevole che dopo la musica c’è solo il liberatorio applauso e il silenzio riconoscente. Scrivevo di preparazione. Sì, perché è anche dalla formulazione dell’impaginato concertistico che l’ascoltatore comincia a capire chi ha di fronte. Non è vero che pezzi fatti e rifatti portino automaticamente al successo, se non di cortesia. Il pubblico si entusiasma quando riconosce talento e preparazione e l’artista lo emoziona. Di apparire molti hanno voglia, di studiare meno. Al direttore d’orchestra è necessaria l’assoluta tecnica, che è tra gli elementi insopprimibili per avere un maestro eccellente. Le lodevoli intenzioni musicali, non possono essere solo corroborate da energia e passione, devono essere supportate anche dal “braccio”. Il “braccio” – va comunque ribadito – è condizione necessaria, ma non sufficiente: servono altre qualità come preparazione, studio, riflessione, cultura generale, volontà, determinazione, per avere una bacchetta fantastica.  “Fare il” ed “essere un” direttore d’orchestra non sempre coincidono. Occorre studiare sempre, affinché le interpretazioni, ricche di intuizioni e di sapere, si alleino con la memoria e la tecnica. Al maestro deve essere richiesto dominio della partitura: per ciò, oltre al talento, servono studio, conoscenza della Composizione e dei colpi d’arco, prontezza di riflessi, capacità di bilanciamento. L’orchestra è uno strumento diverso dal singolo strumento. Sia consapevole il maestro che il brano musicale è un’architettura compiuta e ogni tonalità ha un suo colore e che come interprete è chiamato a illuminare anche una faccia di quel prisma chiamato opera musicale. Sia raffinato fraseggiatore, forte della sua musicalità, diriga con senso plastico della forma e della tavolozza cromatica.

Esalti la geometria delle partiture, palpitante e fervida, perché occorre capire la musica, inoltrarci nei suoi sentieri misteriosi, tra colori, specificità di codici e rimandi alle altre arti: è questa la necessità animatrice.  Direttori d’orchestra si nasce e si diventa. È tradizione interpretativa nelle opere italiane tagliare battute, non fare le riprese –  il “da capo” – nelle arie, addirittura espungere interi numeri. Ma oggi riusciamo ad apprezzare la partitura nella sua compiutezza. Ed è “un’altra opera”, tanto ci eravamo abituati ai tagli di tradizione. Le romanze delle opere non devono essere trasportare per la ineludibile ragione che ogni tonalità ha il suo inimitabile colore. Se il cantante non ha, tra le frecce del suo arco, la necessaria estensione richiesta, non ricopra quel ruolo. Il direttore d’orchestra – che non dovrebbe neanche tagliare numeri musicali di un’opera – non deve permettere nessun abbassamento. Altrimenti vuol dire che non ripone la necessaria attenzione ai colori della partitura. Poniamoci ora questo interrogativo, di ordine generale: non è forse da preferirsi un’opera in forma di concerto ben diretta, con una bacchetta capace di rende vivo quanto di teatrale c’è nella partitura, a una rappresentazione in forma scenica con una regia che va contro la musica? La mia vuole essere una gentile provocazione e uno stimolo al dibattito. Non si discute sull’assioma: Opera ossia Teatro musicale. Una regia che va contro la musica è quella che non aiuta la comprensione della vicenda. Immaginiamo uno spettatore che si rechi per la prima volta in teatro o per la prima volta assista a una determinata opera senza essersi adeguatamente preparato. Cosa capirebbe di certe regie? Regie che attualizzano vanno benissimo. Dipende come lo si fa e con quale grado di invenzione e di coerenza. Bisognerebbe analizzare ogni singola produzione. Ci sono regie contemporanee efficaci e rivelatrici e altre mediocri, così come regie tradizionali che sono capolavori e altre irrimediabilmente datate. Lo strumento del direttore è l’orchestra.

 

Luigi Poggiogalle

Direttore d’orchestra e docente di Discipline letterarie all’I.T.C.G. «Enrico Fermi» di Tivoli