EDITORIALE – Sono trascorsi tredici anni dalla notte dell’orrore. Le 3.32, un’ora destinata ad entrare nella storia tragica dell’Abruzzo e dell’Italia intera. La distruzione, la ferita a morte inferta dalla natura al capoluogo. In un secondo L’Aquila bella nostra non era più. Oltre trecento i morti, tanto orrore, tanta sofferenza vissuta con esponenziale dignità dal popolo aquilano e da quanti ebbero ad essere colpiti dal terremoto.
Come noto la scossa principale fu preceduta da un lungo e preoccupante sciame sismico scaturito nel movimento delle 3.32. Vite spezzate. La casa dello studente. Le Chiese crollate. La Prefettura piegata su se stessa. Sgomento, incredulità, senso di impotenza avvolsero da quella notte in poi tante altre notti. Un dolore sordo, che ancora non passa, i segni sono ancora tutti lì a distanza di tanto tempo, un timido segnale di ripresa arriva da un centro storico dilaniato e spogliato della sua identità e del suo patrimonio architettonico, culturale, storico.
Tante cose sono state fatte, tante altre ancora sono da fare. Gente che ha dovuto lasciare il proprio quartiere, la propria casa e adattarsi in moduli comunque garantiti in tempi record per la gravità di quella emergenza.
Ma alla violenza della natura si aggiunse la violenza dell’uomo, nelle sue speculazioni. Il ricordo è di chi rideva dentro al letto, e da quanti hanno tratto fortuna illecitamente da una simile disgrazia.
All’Aquila bella mè, L’Aquila bella nostra.