San Polo dei Cavalieri – Voglio iniziare con una domanda secca: cosa significa l’immagine? I film a cui il grande pubblico è oggi abituato molto spesso non sanno rispondere a questa domanda; anzi, non è proprio loro obiettivo porsela. Possiamo dire con una certa fermezza che, alla lunga e sulla larga scala, storicamente ha vinto un senso illusionistico dell’immagine, l’incantesimo cioè che ci fa credere per un paio d’ore che ciò che accade sullo schermo è vero – o quantomeno verosimile: stiamo al patto della finzione.
Questo però non esaurisce tutte le possibilità dell’immagine, ed anzi ne considera una parte forse minima: basta ricordare Godard e Ėjzenštejn, ma anche – se non vogliamo fare troppo i sofisticati – il cinema delle origini, quando, prima della narrativizzazione hollywoodiana, l’immagine in movimento non era per forza uno strumento delle storie, ma anche un esperimento preso per sé, nella sua rivoluzione assoluta di disegno dinamico. Ecco: Benedetto Simonelli, ad esempio, è un artista che ha avuto modo di pensare l’immagine in un senso molto diverso rispetto a quello a cui ci abitua il cinema occidentale diciamo “standard”, e lo ha fatto specie con il suo Genesi, elaborato e partorito all’inizio degli anni Novanta.
Prima di addentrarci nell’analisi di questo film, è certamente bene sottolineare quali sono le direttrici principali della geografia di Simonelli: Roma, la città da cui proviene e da cui ha ricevuto probabilmente gli stimoli più avanguardistici del suo lavoro; Tivoli, la città in cui ha girato il suo Genesi; San Polo, il paese in cui ha deciso poi di ritirarsi, proseguendo un percorso di meditazione che aveva già in Genesi le sue radici più forti, radici a fittone.
Genesi, infatti, è un film intensamente filosofico, se non addirittura una filosofia fatta immagine. Per studiarlo con ordine, isolerei allora le componenti sia sostanziali sia formali che trovo utili per scavare in questa profonda opera cinematografica, suddividendole in quattro aree di riferimento, per poi tracciare la funzione logaritmica che le interseca: struttura, tema, immagine, suono.
- Struttura. Dal punto di vista della costruzione, il film si articola in tre “parabole” (come ci suggeriscono i titoli in sovrimpressione). È chiaro che in un film con questo titolo, la struttura in evoluzione si eleva essa stessa a tema del racconto: e infatti è proprio questa architettura a cogliere e insieme rivelare il senso della Genesi, che va intesa come sviluppo insieme della natura e della coscienza umana (e non umana). La prima sezione si chiama “Formazione” e corrisponde quindi al livello magmatico dell’assemblaggio degli elementi: la voce fuori campo pone al centro il fuoco e la luce. La seconda si chiama “Azione”, e tocca un tipo più singolare di formazione, un principium individuationis: non creazione assoluta, ma creazione di vita, e cioè acqua. La terza parabola è intitolata “Fondamento”: l’essere costituitosi, la nuova vita, ora crea a sua volta e lo fa nella figura della fondazione della casa, della costruzione di significati antropologici, estetici e pratici di un luogo, “per dare corpo alla luce”; dominano ora la terra e la pietra. Il processo è compiuto, la formazione ha permesso altre formazioni ed ora è possibile una riconciliazione con la natura, che è la “nuova” spiritualità che il film vuole raggiungere e proporre.
- Tema. Dal punto di vista tematico, allora, possiamo andare a leggere il significato della struttura che, come annunciato, è esso stesso tema di racconto: il film non segue infatti una storia effettiva (ecco una dimensione alternativa, rispetto al cinema che il senso comune in un certo modo intende), eppure è esso stesso tutte le storie. Il concetto di “genesi” è il divenire colto nella sua essenza fondamentale e base di ogni evoluzione diacronica, e per questo non ha bisogno di una trama partecipata, di personaggi, essendone il presupposto originario, la stessa possibilità di uno sviluppo dialettico delle cose e delle coscienze. È un percorso verso l’origine colto alla radice, facendo del mezzo cinematografico insieme il campo e lo strumento di esame.
- Immagine. Da un punto di vista più tecnico, la visività di Simonelli è volutamente fuori fuoco, parziale, tremolante, di uno sguardo in perenne affacciarsi sul mondo e per questo in perenne precarietà e perenne incanto. Qui si rintraccia il punto più lontano, dell’arte di Simonelli, dal cinema “quotidiano”: l’immagine non rappresenta davvero (sono visioni di elementi naturali delle montagne di Tivoli, animali, azioni semplici e umili di lavoro umano), nel senso che non vuole essere mimetica; vuole semmai proporre una tensione tra l’onirico e il mistico, essere in grado di comunicare attraverso la qualità stessa della visione, il taglio dello sguardo, più che tramite l’oggetto ripreso. Siamo forse in un concept cinematografico vicino a quello del Carmelo Bene di Nostra signora dei turchi: di Bene a Simonelli manca quel senso dell’identità e del tempo frantumati, forse; energie che però lui ricicla nella speculazione della storia astorica per eccellenza – la Genesi, appunto – e in un’immagine che rende, insieme alla voce fuori campo, il lento decorso del tono ragionativo, l’appoggiare la propria indagine raziocinante sulle forme del creato per trarre da quelle il senso intimo non solo del mondo, ma della stessa coscienza che le interroga.
- Suono. Da un punto di vista sonoro il film è felicemente scarno. La sonorità è ridotta a due elementi: una voce che individua i vari tasselli della riflessione filosofica (e vale come domanda dell’uomo all’universo, con un corredo di simboli che molto rimanda alla filosofia presocratica, specie di Eraclito e Parmenide); un gong o simile che rintocca, riempiendo i silenzi della natura. È un minimalismo assoluto che funziona perfettamente in accordo sia con la riflessione pronunciata sia con quella rappresentata dall’immagine.
Le quattro aree, insomma, rivelano come il cercare di smontare questo film in elementi costituenti serva solo a coglierli nuovamente nella loro unità ancestrale, che è reale oltre che tematica: siamo di fronte a un film in grado di fare dell’immagine, del suono e del pensiero tre direttrici strettamente intrecciate e in grado di alimentarsi l’un l’altra, di bucare l’opera e concepirla come oggetto reale. È il minimalismo sonoro a evidenziare i contenuti del pensiero; è l’onirismo delle immagini a sviluppare un senso profondo della natura; è la profondità del pensiero a illuminare le tecniche di ripresa, e così via.
Mi piace pensare questo Genesi, allora, come riconsiderazione della capacità penetrante dell’immagine per raggiungere il nocciolo stesso delle cose, se la nostra vita, anche, è profondamente guidata dalle immagini del nostro occhio e della nostra coscienza, come lo stesso autore sottolinea in una sua riflessione: “Tutta la nostra cultura delle immagini si fonda, in gran parte, sull’esercizio della letteratura e della psicologia, della morale e del costume: il mondo fisico, ad esempio, tessuto vitale sul quale incidiamo quotidianamente le nostre azioni e rappresentazioni, è confinato sul fondo, supporto funzionale al primo piano dominante delle nostre presenze”. Nel capovolgere questo dominio, nel provare un’altra scacchiera di gerarchie dell’immagine, sta tutta la forza di Genesi di Benedetto Simonelli.