Vicovaro – Per le edizioni “Arcipelago Itaca” è da poco uscito il nuovo libro di poesie di Antonio Francesco Perozzi (il secondo dell’autore), “Lo spettro visibile”, con introduzione di Pasquale Pietro del Giudice.
Il libro è arrivato da Fossalta, paesino del Veneto in cui Antonio Francesco abita per motivi di lavoro. Un dono, uno xenia al destinatario (che non sono io) ma, in virtù dello spazio di coabitazione, anche a me (già nelle sue intenzioni).
Libro insieme ad altri libri, non è rimasto inascoltato, esigendo anzi una sorta di precedenza che l’amicizia reclama e un orizzonte d’attesa pone come non rinviabile. Anche se l’attuale orizzonte (il mio) è una linea (ri)stretta. Ho letto il libro nuotando in acque rimescolantesi in un viaggio (quello del poeta in questo libro) che è impulso incondizionato, spogliato, virgineo, barbarico a «cercare, viandare tutto» di un’esistenza che è in primis esistente, fenomenica, materica.
Andare questo è il movimento a cui la poesia di Antonio Francesco vuole obbedire (in esergo): approssimarsi, cadere, immergersi, riemergere, distendersi.
Molteplicità di movimenti di un viaggio che è incontro-scontro con l’altro e che a livello stilistico semantizza l’enjambement, figura chiave dell’andare del poeta. La poesia allora è mezzo (medium) di esperienza, in quanto nel suo farsi approssima, scavalca (ecco l’enjambement), incontra (l’incontro non avviene con un altro a-materico, puro, etereo) il terrestre con casualità. Non a caso la poesia “Caduta” apre la sezione “Catabasi normale”.
Cadere è precipitare dall’alto verso il basso con tutto il proprio peso di essere pensante, senziente. Il cadere implica un impatto del proprio corpo con un altro corpo; un impatto improvviso, violento da cui si esce trasformati, modificati. È l’oggetto/corpo/visione che ci trasforma? Antonio sembrerebbe dire di no: al di là di chi o che cosa incontriamo, è la forza, l’energia dell’incontro l’esperienza metamorfizzante. Tra l’altro l’esperienza non si dà mai come definitiva.
L’occhio-spettro visibile (dovremmo vedere così) «sbrina» l’opacità della nostra esistenza normale, introducendoci sulla soglia dell’infinitamente possibile: «la strada che»; lo spazio-luogo «dentro cui» (Lo spettro visibile, p.31). Non ci sono barriere ma solo varchi in questa gnoseologia dell’esistente. E saranno anche solo tentativi, ma il non tentare corrisponde alla cecità che stende davanti a te «lande e lande». E non importa chi/che cosa incontrerai ma l’incontro-scontro, l’energia liberata, la forza in grado di farti sentire vivo e cioè di vedere utilizzando la tua «palpebra» perché «è una delle tante feritoie dello spettro» (In prospettiva ariosa, p.95).
L’esistere allora è un andare obliquo (non ci sono percorsi diritti) nell’attesa epifanica dell’incontro-scontro (che è un atto d’amore per l’esistente) che attivi lo spettro visibile così che «una chiazza della realtà si sgretoli / e riveli in obliquo il criterio di/mondi lontanissimi» (I punti di saturazione, p.91). Il guardare quindi non è vedere ma è sbrinare, sgretolare, scomporre il circondante proprio come accade quando la luce bianca attraversa un prisma. Ha qualcosa di esoterico questo viaggio, non c’è dubbio; l’entusiasmo delle infinite possibilità della vista-potenziata è furore dionisiaco (è presente Nietzsche), ma il poeta, pur essendosi autodeterminato, vuole condividere la sua esperienza: il lettore è invitato a seguirlo, fidandosi di lui, ora che ha sanato (riempito) il vuoto che lo teneva sospeso (e quindi insicuro) tra l’essere e il significare, tra il mondo reale e la comunicazione di esso (Cfr., Antonio Francesco Perozzi, Essere e significare, ed. Oèdipus, 2019).
Il poeta ha trovato la sua strada (o forse solo una delle tante strade che va percorrendo); ora «ciò che sei stato non sei» (Epoché, p.32). Tutto è iniziato dal suo orto quando l’impianto dello spazio-vita ha infranto ogni barriera «tra via Enrico Fermi e il cosmo».
Io ho visto perciò ho seguito il suo invito:
«Prima o poi si marcisce al sole e fuori / da questo accadere non importa» (Pianta, animale, vortice, Dio, p.33).
L’accadere va incontrato dovunque: sgretolando, annotando. Il taccuino ha un ruolo centrale in questa poesia accadimento; è uno strumento irrinunciabile della scrittura poetica. Lo sanno bene poeti come Campana e Ungaretti. Il taccuino taglia la scrittura a una forma scorciata, rapida, en plein air e sappiamo quanto la luce sia conditio sine qua non alla tassonomia dell’esistere e quindi alla poesia di Antonio Francesco. Incontrare l’esistere nelle sue molteplici esistenze, astenendosi da ogni conoscenza-giudizio: il poeta piuttosto si farebbe tagliare la testa. Che poi significa che il traguardo non è una nuova tassonomia classificatoria. È sempre un andare in cerca casuale di un altro possibile incontro-scontro.
«Starci dentro sempre» (Viandanza, p.27) a questo esistere perché il viaggio è «sopra la terra».
Iniziano gli incontri. L’acqua è uno spazio-luogo molto presente specie nella morfologia lacuale (il lago come spazio anche abitativo nel nomadismo casuale dell’esistenza). Nell’acqua c’è l’origine della vita, una vita che si agita e da cui organismi «diliscati» metteranno le zampe sulla terra per conquistarla. Poi gli uccelli, le piante, l’azione nefasta dell’uomo nello scenario dei coralli slavati (Simbiosi alga-corallo, p.61). Le montagne: notevole La deriva dei continenti.
Il mondo che il poeta incontra è lì, lì ha il suo esistere, la sua lotta per l’esistenza (Darwin lo ha spiegato anche se ha negato il concetto di estinzione); nessun idillio uomo-natura; nessun rifugio consolatorio; la natura non ci deve nulla, crederlo fa montare l’ira che si adopera per scrostare le distorsioni ideologiche. L’immagine del contadino, il «vecchio col cappello e la vanga» (Quantità di semi, p.67) è una costruzione della sovrastruttura. L’orogenesi di fatto abbassa il cielo, ma non il Cielo.
Se c’è una ermeneutica possibile, forse possiamo trovarla in Cromosistemi (p.88), ma forse di più in Per nostra relatività (p.90).
Sarà comunque un incontro, un generoso incontro.
Margherita Crielesi