Vicovaro – La raccolta Poesie (Enrico Montagnoli Editore, 1991) di Angelo Orfei è un compendio delle varie declinazioni dell’essere poeta “paesano”. Intendo questo aggettivo in senso positivo: un tipo di scrittura aderente allo spazio vissuto (Vicovaro, in questo caso), pronta a raccontarne luci e ombre (così si legge nella “Prefazione dell’autore”: «La mia vena poetica è ispirata, quasi sempre, da avvenimenti circostanze e momenti della mia vita quotidiana. […] lo scopo essenziale che mi ha spinto a far stampare questo libretto è soprattutto quello di dedicare al mio paese e ai miei concittadini ciò che in esso è contenuto»).
È significativo, però, che il libro sia diviso in tre parti (ognuna ordinante le poesie in senso cronologico, con uno spettro temporale che va dal 1960 al 1987) secondo un criterio linguistico: poesie in italiano, in romanesco, in vicovarese. Proprio questa necessità di poetare in tre lingue (e, si noti: quello in vicovarese è il gruppo meno folto) bisogna ravvisare la condizione “paesana” di cui dicevo prima. Non sono rari – anzi sono la maggior parte – i casi di poeti di piccoli paesi (poniamo: della Valle dell’Aniene) che accostano alla scrittura dialettale quella in romanesco – e sarebbe da interrogarne anche le ragioni storiche-sociologiche – in cui quasi sempre è imperante il modello di Trilussa o quello di Belli. La poesia di Orfei si esercita così su tre piani linguistici diversi, che sono però anche tre piani estetici: quello italiano è il lato naturalistico, a tratti carducciano (troviamo, ad esempio, L’alba, Il ruscello, Il canto della sera…), quello romanesco è il più scanzonato e satirico (e anche il più “folcloristico”; forse il meno interessante del libro), quello vicovarese il più confidenziale e nostalgico (Tempo de mascarelli, Ricordi passati, Tempo de guera…).
Non mancano certo interferenze tra i tre piani (ad esempio, nella sezione in italiano, troviamo una poesia dedicata A Marcantonio Sabellico e un Omaggio al cugino Salvatore Perozzi, o in quella romanesca una su La Chiesa San Sabino durante le quarant’oro), ma in linea di massima – e questo è interessante – a cambio di lingua corrisponde anche un generale cambio di postura esistenziale. La “paesanità” nel senso espresso prima, affiora principalmente nei contesti dialettali, in cui lo strumento poetico può farsi anche veicolo di denuncia personale (Li critici faciloni) o collettiva (Pore fontane de Vicuaru, La pinsilina aiu rettiliniu de le mole) o in generale di racconto di questioni contingenti e personaggi del quotidiano (Avvertimento a ‘n amico, La sfortuna de Sora Rosa, Porelli nui).
Se, da un punto di vista tematico, Orfei appartiene dunque alla fitta schiera di poeti suggestionati dal contesto provinciale (con allegati anche tutti gli effetti del caso, come il naturalismo, il vedutismo, l’antropomorfizzazione degli animali), molto interessante, e non troppo diffusa, è la sua sicura consapevolezza metrica, che non cede mai al verso puramente libero, ma sempre lo incasella in schemi molto precisi e rigorosi. Il verso prediletto – quasi l’unico – usato da Orfei è l’iper-classico endecasillabo, che può partecipare a strutture libere da un punto di vista strofico, a schemi rimici vari (ma i più frequenti sono quello alternato, ABAB, o quello incrociato, ABBA), oppure a forme standardizzate – principalmente il sonetto.
Anzi, l’uso del sonetto da parte di Orfei è a mio avviso l’elemento più intrigante del libro: rispettandone comunque con perizia le misure sillabiche (ne è indice ad esempio la frequente aferesi della “o” in «ogni», che diventa «’gni»), Orfei sottopone il sonetto anche a un certo grado di sperimentazione nel momento in cui ne moltiplica le quartine (tenendo, però, le terzine stabili). Accanto ai sonetti classici (due quartine e due terzine di endecasillabi) avremo quindi sonetti-monstre con quattro quartine e due terzine (La primavera), sei quartine e due terzine (Li fiji che strazio) o addirittura otto quartine e due terzine (I tempi so’ cagnati), ovvero con le quartine quadruplicate rispetto alla forma standard.
La poesia di Angelo Orfei, insomma, si muove tra rispetto della tradizione e invenzione, e unisce al racconto “basso” del mondo comunitario in cui vive, al multilinguismo, una certa sapienza dell’arte metrica e la curiosità, anche, per la sua manipolazione.