Editoriale di Pietro Guida – E’ una storia già vista. Una storia che non ha insegnato nulla. Il mostro è tornato, alla stessa ora. Ha fatto qualche minuto di ritardo, ma i modi sono gli stessi. Parto anche stavolta con i colleghi per avvicinarmi a lui. L’altra volta con me c’era Luigi Di Fonzo, ora Giustino Parisse e Roberto Raschiatore. Non è all’Aquila, ma ad Amatrice. Qualche decina di chilometri più in là. Cambiano le strade, ma non cambia la sostanza. Sai già cosa vai a vedere. Stavolta ero più preparato. Ma quando ti ci trovi davanti capisci che non sei pronto, non puoi mai essere pronto. Tutto è uguale, ma tutto è diverso. C’è una rabbia in più, una domanda in più: possibile che L’Aquila non abbia insegnato nulla?
La prima scena più cruda è una risposta a questa domanda. L’ospedale è pericolante, sembra di cartapesta, i pazienti sono fuori, sanguinanti, feriti, curati nel piazzale in un ospedale a cielo aperto. Possibile che in sette anni nessuno abbia pensato a metterlo in sicurezza? In fondo siamo lì, vicino all’Aquila, e si sa che quella zona è a rischio. Era stata già spazzata via dal terremoto 400 anni fa. Salgo più su e spunta l’inferno, lo riconosci dall’odore, dalla polvere, è lo stesso sconvolgente inferno che ti lascia senza parole.
Ecco il silenzio, quello che non vorresti mai sentire. Poche voci, qualche lamento. E’ la calma piatta del dramma consumato. E’ l’alba, Amatrice è deserta, come lo era L’Aquila. Le strade sommerse dalle macerie, quelle interne, dove ancora non c’è nessuno, assomigliano al centro dell’Aquila. I superstiti vagano con lo sguardo fisso nel vuoto. Non piangono. Neanche all’Aquila piangevano. Non c’è Piazza Duomo stavolta, qui c’è Piazza Antonio Serva, ma cambia poco. Le persone in pigiama, scalze e sporche di sangue camminano senza una meta. La parte più interna del centro storico, quella inaccessibile se non arrampicandosi sulle macerie, è uno scenario apocalittico. Tutto sembra uguale ad allora. Ma allo stesso tempo tutto è nuovo, diverso. Ci sentono lamenti sotto le macerie, rompono il silenzio. I soccorritori non sono sufficienti a occuparsi di ogni sepolto, di ogni sepolto vivo.
Ma come è possibile che dopo tre o quattro ore ancora non ci siano tutti i soccorritori a scavare? Poi pian piano il mare di macerie e la spianata di cemento e calcinacci si popolano. Arrivano i vigili del fuoco, i soldati, il soccorso alpino, la croce rossa, la protezione civile, i carabinieri, la polizia, la forestale. Ma dove eravate prima?
Verso le otto si scava sotto la maggior parte delle case crollate, ma non basta. Ce ne sono altre, ce ne sono ancora. Solo dopo le nove si scava quasi sotto tutte le case. Ma sono già passate sei ore, sei lunghe ore. Troppo tardi, troppo poco. E Amatrice non è L’Aquila, è circa un ventesimo. Fuori i morti, li riconosci perché sembrano pesare di più, si estraggono a fatica. Fuori i vivi, e si tira un sospiro di sollievo che però dura solo il tempo di ricominciare a scavare. Poi ritorna il silenzio, quel silenzio che non vorresti sentire mai.@pietroguida