Roma, le baracche dell’Acquedotto Felice: ricordando don Sardelli che visse dalla parte degli ultimi
Roma – Sono evidenti ancora oggi i segni delle baracche all’Acquedotto Felice, dove vissero “gli ultimi” di Roma costretti ai margini della società. E dove visse con loro anche don Roberto Sardelli, parroco di San Policarpo, che non poté restare indifferente di fronte ai disagi e all’ingiustizia sociale. E, sull’esempio di don Milani, fondò proprio in quelle baracche una scuola per aiutare i ragazzi a istruirsi e a emanciparsi, offrendo loro un’occasione di riscatto e una nuova consapevolezza della propria dignità.
Don Sardelli arrivò nella parrocchia di San Policarpo, nel quartiere Appio Claudio, nel 1968, chiamato a coadiuvare il parroco don Sisto Gualtieri. Fin dai primi giorni, tramite alcuni chierichetti, venne a sapere che a cento metri dalla chiesa, lungo gli archi dell’Acquedotto Felice, c’era un nutrito insediamento di baraccati. La realtà non gli era sconosciuta, ma trovarsela a pochi metri di distanza lo spinse ad approfondire la conoscenza e i bisogni di quella gente.
Scoprì che erano prevalentemente migranti provenienti dall’Abruzzo e dal resto del Meridione, venuti in gran parte a costruire la Roma che si rinnovava alla fine degli anni Sessanta; ma scoprì anche come quei muratori e quelle donne di servizio che abitavano le baracche venivano sfruttati dalla città, e che a causa del loro bassissimo salario non potevano permettersi un affitto, vivendo ai margini della società. Per alcuni giorni don Roberto frequentò il borghetto e poi decise di fare una scelta estrema e rivoluzionaria: andare a vivere con loro, in quell’angolo di umanità umiliata e oppressa. Fu per loro un faro nella notte, un apostolo della fede in un luogo che sembrava dimenticato da Dio.
Le condizioni igienico sanitarie delle baracche erano talmente malsane che ci si ammalava facilmente di difterite, polmonite e ì malattie infettive di ogni tipo. Due suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta prestavano la loro opera nelle baracche e la stessa Madre Teresa visitò il posto una volta. Una realtà di estrema emergenza quella dell’Acquedotto Felice a cui non si poteva voltare le spalle. Così lo descrive don Sardelli, in una lettera rivolta al sindaco di Roma, nel 1968:
«Il luogo dove viviamo è un inferno. l’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalla nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in continuo pericolo di malattie. Quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi» .
Vivevano lì molti bambini e ragazzi: quasi tutti frequentavano la vicina scuola pubblica sia elementare che media, ma segnati dal disagio sociale, ne venivano anche emarginati. Molti venivano scartati e finivano nelle classi differenziali, il grado più basso di scolarizzazione offerto; altri addirittura venivano etichettati come “ritardo mentale” e finivano per essere ancora più stigmatizzati e abbandonati a sé stessi. Roberto diede loro un’istruzione rivolta non solo alla conoscenza, ma a un riscatto sociale e culturale. Nacque così la “Scuola 725”, dal numero della baracca che la ospitava. Gli stessi ragazzi ne curavano la pulizia e il giardinetto antistante. Nella Scuola 725 si restava fino alle ore 20 e d’inverno già alle 16 imbruniva. Non c’era l’elettricità, e per farsi luce utilizzavano dei mozziconi di candela, o altri espedienti.
La scuola di don Roberto superava il sapere puramente didattico e nozionistico: i ragazzi leggevano ogni giorno i quotidiani per conoscere la realtà che li circondava e i personaggi che partecipavano di quegli avvenimenti. Sceglievano le notizie che più li colpiva e le commentavano insieme al sacerdote. Le loro riflessioni andavano poi a confluire sul quindicinale “Scuola 725”, che veniva battuto a macchina e distribuito dai ragazzi stessi.
«Noi mandiamo questa lettera al Sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto e il dovere di sapere che migliaia dei suoi cittadini vivono nei ghetti»: proprio così cominciava la “Lettera al Sindaco” della Scuola 725, scritta dal sacerdote insieme ai ragazzini dell’Acquedotto Felice. La condizione dei baraccati era al centro della vita attiva e pastorale di don Roberto, animato da un fuoco inestinguibile di carità cristiana e giustizia sociale. Vivere come ultimo fra gli ultimi, e non solo. Sentiva il dovere morale di fare appello “disturbando” le istituzioni, chiedendo loro di aprire gli occhi e le coscienze.
L’esperienza all’Acquedotto Felice durò fino al 1973, quando le baracche vennero abbattute ei suoi abitanti assegnati agli alloggi nel quartiere di Nuova Ostia. Fu una soluzione solo in parte condivisa. Perché in quella comunità avevano imparato a vivere di solidarietà reciproca, ad essere gli uni per gli altri nonostante – e forse proprio in virtù – delle difficoltà e del bisogno. Don Sardelli parlò di una «deportazione dolorosa» perché all’Acquedotto Felice «si era costruita una comunità che dopo si è disgregata» nel trasferimento in un quartiere lontano dal centro, senza servizi e senza strade.
Ma l’esperienza di don Roberto non finì certamente lì. Continuò la sua opera al servizio dei più deboli e di critica nei confronti di una società consumistica e indifferente verso il prossimo. Negli anni Ottanta si schierò al fianco dei malati di Aids, quella parte di società a quel tempo forse più demonizzata, ghettizzata e scartata. Accompagnò molti malati nelle corsie degli ospedali, riconoscendo in quella porzione di umanità sofferente una nuova frontiera degli ultimi, bisognosi di compagnia e riscatto.
Scrisse dei libri dedicati all’esperienza della Scuola 725 e al clima sociale di quegli anni, come “Non tacere” e “Dalla parte degli ultimi”. Quasi al termine della sua vita, nel novembre 2018, l’Università di Roma Tre conferì a don Roberto una laurea magistrale “honoris causa” in Scienze pedagogiche. Morì nella sua città natia, Pontecorvo, nel 2019, all’età di 84 anni. Gli abitanti del quartiere Appio Claudio non lo hanno mai dimenticato; la sua vita e il suo esempio hanno lasciato un’impronta indelebile, destinata a dare i suoi frutti nel tempo. Recentemente, è stato proposto di intitolare a lui la piazza esistente tra via dei Levii e via del Quadraretto. La sua fu davvero una vita al servizio degli ultimi.