Roma – Metro piene, tram e autobus straripanti di gente accalcata, pensiline affollate: è questa la situazione dei mezzi di trasporto a Roma, che fanno emergere tutte le contraddizioni di un momento storico difficile e controverso, che vede protagonista da quasi un anno un nemico invisibile, il coronavirus. Mentre il governo sforna decreti settimanali per contrastare i contagi, obbligando la chiusura di palestre e piscine, parchi e giardini, cinema e teatri e imponendo la chiusura alle 18 per bar, pub e ristoranti, cosa accade nella vita quotidiana sui mezzi pubblici?
Da Palazzo Chigi, l’altoforno da cui escono i fantomatici Dipiciemme, a Porta Maggiore, crocevia di autobus, tram e trenini che collegano la periferia di Roma est al centro della Capitale, la distanza è di soli 4 chilometri eppure sembra di essere su due mondi lontani anni luce, dove i decreti appaiono la sterile controfigura di quello che accade realmente fuori dal palazzo, nelle strade della città. Come si concilia la volontà del governo di tutelare la salute pubblica con i mezzi che ogni giorno straripano di gente?
Dopo le 18 i lavoratori escono dal proprio ufficio o posto di lavoro, chiudono il proprio bar o locale per fare ritorno a casa, eliminando dalla vita ogni forma di socialità, ed evitando ogni occasione di “assembramento” per la propria e altrui salute. Ma è nel tragitto la vera questione che fa crollare tutto il castello di carte. A Roma, come in tutte le grandi città, dopo le 18 inizia la seconda parte della giornata, quella più buia e pericolosa in cui i pendolari tentano di raggiungere la propria abitazione con i mezzi pubblici cercando di evitare i contatti, ma quale luogo migliore per creare assembramenti e “forzata” socialità?
Porta Maggiore – come molti altri snodi del trasposto pubblico romano – è un pullulare di gente che non avendo altri mezzi è costretta a salire sull’autobus, armata di mascherina e di disperata speranza: quella cioè di tornare a casa “illesi” senza aver contratto il virus dal vicino di posto che tossisce, starnutisce o si limita semplicemente a respirare, ma lo fa a distanza di un centimetro. Sui mezzi tutti indossano la mascherina, coprendo accuratamente naso e bocca, ma a vigilare sugli accessi non c’è nessuno, e questo vanifica lo sforzo di seguire le regole.
Sembra un loop questa paradossale parabola del coronavirus: si prendono i mezzi ogni giorno per andare al lavoro, ma così facendo ci si espone ogni giorno a un possibile contagio da Covid-19 e si rischia di non poter più lavorare. Non ci sono mascherine che tengano quando la distanza svanisce in un tram che straripa come un carro bestiame, non ci sono decreti che stabiliscano un maggior controllo sul trasporto pubblico – aumentando le corse e limitando il numero di posti a sedere –, non ci sono tutele per i lavoratori che hanno contratto il coronavirus ma risultano asintomatici (secondo l’Inps, il lavoratore in quarantena precauzionale o positivo ma senza sintomi non ha diritto a ricorrere alla tutela previdenziale della malattia). Pare non esserci soluzione a questi problemi, e intanto si allungano spavalde le ombre di un nuovo lockdown.
Dietro le apparenze dei decreti redatti con applicazione certosina e firmati nel buio della notte allo scopo di tutelare la salute pubblica ed evitare il contagio, c’è un popolo che vive dentro le molte incongruenze che emergono nella quotidianità: non volute – certo – ma che denunciano una situazione allo sbando, difficile da gestire con le sole “norme di sicurezza”, spesso più teatrali che efficaci. In una condizione così precaria e serrata, il popolo sovrano – termine ormai logoro e stremato – non può fare altro che “credere, obbedire, combattere” in attesa di tempi migliori.