Storia dell’influenza spagnola (1918-1920): dal primo focolaio nel Kansas all’arrivo del vaccino nel 1938
L’influenza spagnola fu una delle pandemie più grandi e tragiche della storia, che fra il 1918 e il 1920 infettò circa 500 milioni di persone in tutto il mondo e ne fece morire circa 50 milioni. Il 60% delle morti avvenne in un periodo breve. Ma da dove partì questa influenza, e perché la chiamiamo Spagnola anche se con la Spagna ebbe poco a che fare? Ripercorriamo la storia di questa epidemia, dalle origini fino all’arrivo del vaccino.
Quella che chiamiamo comunemente “influenza spagnola” non ebbe affatto origine in Spagna. Sembra che la storica pandemia ebbe origine da una remota contea del Kansas, la contea di Haskell, in un ambiente rurale e isolato, che però iniziò a diffondersi a causa di una terribile coincidenza. Nel 1918, mentre gli Stati Uniti erano in guerra contro l’Austria e la Germania, si stavano preparando ingenti truppe di soldati da inviare sul fronte europeo. I soldati venivano addestrati in campi estremamente affollati, uno dei quali era a poche decine di chilometri dalla contea di Haskell, dove aveva avuto origine il primo focolaio dell’influenza.
Lo scopritore del virus influenzale, poi ribattezzata “influenza spagnola”, era un medico del Kansas, Loring Miner. Per primo aveva notato questa influenza con strani sintomi e aveva anche avvisato le autorità, ma in quel momento l’amministrazione Wilson aveva altre priorità (la guerra, appunto) e nessuno badava a quella che sembrava una modesta epidemia locale. Intanto i soldati, assembrati nel campo di addestramento, cominciarono immediatamente a infettarsi, ma i sintomi non erano ancora sufficientemente gravi per capire l’entità dell’epidemia, e vennero quindi spediti in Europa a combattere.
L’arrivo delle truppe americane in Europa permise al virus di diffondersi immediatamente. I due terzi dei soldati americani diretti in Francia arrivarono nel porto di Brest, che fu il primo focolaio di infezione nel vecchio continente, mentre negli Stati Uniti l’epidemia si sviluppò a partire dalle basi dell’esercito e dai porti dove transitavano le truppe, come Boston, Philadelphia e New Orleans. La diffusione del virus, che poi si tramutò in epidemia, avvenne quindi attraverso i circa due milioni di soldati americani impiegati al fronte, che immediatamente contagiarono le truppe alleate, quelle francesi e inglesi. Ricordiamo poi che il virus, man mano che si diffondeva, mutava e diventava più aggressivo.
Il meccanismo proseguì durante l’estate e poi scoppiò in maniera drammatica nell’autunno del 1918. Fu allora che cominciarono i casi più gravi, e si svilupparono principalmente negli Stati Uniti, a partire dalle basi dell’esercito e dai porti in cui transitavano le truppe per andare in Europa o per tornare dall’Europa. Le navi registravano decine, a volte centinaia di casi durante la traversata: a quel punto le autorità sanitarie militari compresero la gravità del problema e cercarono di isolare i soldati contagiati, ma ormai era troppo tardi.
Nell’arco di poche settimane l’epidemia si scatenò in tutta la sua virulenza in Europa e nel mondo. Gli ospedali sovraffollati, impegnati a curare migliaia di soldati vittime di attacchi chimici e altre ferite di guerra, erano il luogo ideale per la diffusione di un virus respiratorio: ogni giorno vi transitavano circa 100 000 soldati.
Ben presto tutte le strutture ospedaliere arrivarono al collasso: i feriti o i contagiati morirono rapidamente di questa polmonite inarrestabile. Inoltre, non si sa esattamente quanti furono i casi totali registrati, poiché in alcuni paesi, come ad esempio l’Asia, non esistevano statistiche sanitarie attendibili.
Ma se tutto partì dagli Stati uniti, per quale motivo questa epidemia è rimasta alla storia con l’etichetta di “spagnola”? Per una ragione semplice e allo stesso tempo inquietante: la censura. Tutti i paesi in guerra (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Austria) avevano la censura a causa delle operazioni militari in atto, e non potevano parlare assolutamente dei problemi sanitari, men che meno se questi problemi colpivano le truppe e potevano indebolire il morale dei soldati. In questo stato di cose, i primi giornali a parlare dell’epidemia furono quindi i giornali spagnoli. La Spagna infatti, rimasta neutrale al conflitto, non era soggetta a censura e fu la prima a parlare, attraverso la stampa, delle morti in rapida successione, descrivendo l’epidemia nelle sue vere dimensioni.
Dopo la fine della guerra, nei paesi del mondo occidentale tra cui anche l’Italia, vennero prese alcune precauzioni per evitare il contagio. Nella vita sociale venne interdetto l’accesso ai teatri; chiese e altri luoghi pubblici furono chiusi al pubblico, in alcuni paesi anche per un anno intero. Persino i funerali furono limitati a quindici minuti. Come arma di difesa contro la trasmissione della malattia, venne poi richiesto alla popolazione di indossare in pubblico delle maschere, solitamente in tessuto, e vietato l’accesso a tram, uffici e altri spazi pubblici a coloro che non indossavano tale protezione.
I medici credevano che la febbre fosse causata dai batteri e non da un virus, perciò venivano indicati anche dei rimedi casalinghi per contrastare l’insorgere della malattia. Gli opuscoli suggerivano di masticare il cibo con attenzione e di evitare di indossare vestiti e scarpe stretti; era persino in vigore il divieto di tossire e starnutire in pubblico. I rimedi casalinghi comprendevano anche gargarismi con bicarbonato di sodio e acido borico, impacchi di sale nelle narici. Solo negli anni Trenta si scoprì che la causa della febbre era un virus e non un batterio. La cura arrivò dopo vent’anni dall’inizio dell’epidemia, nel 1938. Furono i medici Jonas Salk e Thomas Francis a sviluppare il primo vaccino contro il virus della “febbre spagnola”, che procurò la morte a circa 50 milioni di persone in tutto il mondo.