Tivoli – È stata inaugurata pochi giorni fa The roots of the earth, una mostra che ha portato Luca Di Terlizzi (artista classe ’98 originario di Tivoli) ad esporre in Nepal, nel Museo Patan di Lalitpur, Kathamandu. Il progetto, finanziato da una borsa di studio della Fondazione Mighetto, rappresenta un momento importante, un passo internazionale, nel percorso di Di Terlizzi; ma anche un consolidamento e ampliamento di aspetti tipici della sua ricerca, come il taglio antropologico e il rapporto col mondo inumano e col sacro. Pubblichiamo di seguito il testo critico di Francesco Paolo Del Re, che accompagna la mostra.
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Cinque raggi di un cerchio ideale, non racchiusi dal confine di alcuna circonferenza, irradiano la loro energia potenzialmente all’infinito. Le direzioni sono tracciate dalla presenza di cinque grandi fogli di carta dipinta– ciascuno della misura di cinque metri di lunghezza per uno di larghezza– che Luca Di Terlizzi colloca sul piano di calpestio nello spazio esterno del Museo Patan di Lalitpur, a Kathmandu in Nepal, intorno all’elegante tempietto quadrangolare di Keshav Narayan Chowk.
Una circolarità aperta, che viene evocata dall’installazione che l’artista ambienta sotto il cielo, circoscrive– senza chiuderla– la geometria quadrata dell’edificio sacro, inscrivendo a sua volta il cerchio all’interno del recinto più grande del cortile in cui il tempietto è ubicato.
Manifestandosi come elementi di discontinuità all’interno del microcosmo del sito, gli enunciati pittorici di Di Terlizzi si ingegnano ad aggiungere segni e sensi all’architettura del luogo, amplificandone la sacralità, come se fossero apparati decorativi di una festa possibile dai riturali tutti ancora da immaginare, aggiungendo stupore alla qualità spirituale già propria del luogo e alterando in modo temporaneo e non invasivo la percezione dei volumi, l’uso degli spazi, la disposizione dei corpi rispetto a essi e la prossemica dell’esperienza del loro attraversamento.
La pittura viene proposta dall’artista in modo installativo all’interno di una mostra personale intitolata The roots of the earth, finanziata dalla Fondazione Federico Mighetto di Torino e curata da Suresh Lakhe. Il tema è il viaggio, il confronto con un’altra cultura, l’emozione della scoperta e dell’incontro all’interno di un orizzonte meditativo e spirituale. E, per farsi preghiera e viaggiare lungo rotte di fraternità, la pittura si offre nuda, libera da telai e strutture, senza filtri né protezioni, esponendosi sia all’azione degli agenti atmosferici sia allo sguardo plurale dei fedeli e dei visitatori dell’aera sacra, che possono circolare liberamente all’interno dell’installazione. «I miei dipinti saranno attivatori di spiritualità per loro?», si domanda l’artista. «Lo spero vivamente. Il senso di tutto è attivare la spiritualità, l’emozione che sta dietro quello che uno vede». Per guardare la mostra bisognerà allora puntare lo sguardo in basso, chinandosi con atteggiamento riverente.
È un intervento tanto seducente quanto sbagliato, quello di Luca Di Terlizzi. Così almeno lo si potrebbe considerare seguendo un ragionamento razionale, che vada a ponderare il materiale da lui scelto come supporto delle sue opere, quei venticinque metri lineari di carta che si ottengono sommando i cinque lunghi fogli l’uno all’altro, e viepiù la tecnica adottata, l’indomito acquerello ottenuto con pigmenti puri. Troppo fragili, troppo delicati, troppo deperibili per essere collocati all’aperto e, per giunta, in un luogo che di per sé ha il potere di attirare una grande quantità di persone. Tuttavia, mettendo da parte questo pensiero superficiale e valutando con maggiore attenzione l’idea di Di Terlizzi e il modo in cui è stata realizzata, facendo insomma nostra la sua immaginazione, non si può non riconoscerne l’audacia, la delicatezza e la forza profondamente spirituale che lo anima. La semplice e folle visionarietà del suo andare dall’altra parte del mondo e calarsi tra la gente, per pregare con loro attraverso una pittura che si fa tappeto, rotolo istoriato, vettore di forza, vessillo di storie.
Di essere abituato a una pittura pensata in senso scultoreo, tridimensionale e spaziale, l’artista lo ha già dimostrato in alcune valide prove recenti (come la mostra all’abbazia di Sant’Andrea in Flumine, una delle sedi del PRAC di Ponzano Romano, nel 2024 e quella al Museo delle Navi Romane di Nemi nel 2023), indizi non trascurabili nel suo percorso di ricerca, se si considera la giovane età di Luca Di Terlizzi, che di anni ne ha ventisei. Il respiro della sua visuale spazia al di là di codificazioni o tassonomie, pur non esitando l’artista stesso a definirsi, senza remore né distinguo, pittore in senso proprio. Semplicemente la pittura non ha bisogno della forma-quadro per essere tale, ma si può manifestare in modi plurali, centripeti, eventuali, aggrappandosi a pretesti, estroflessioni, dislocazioni e usando a suo vantaggio ogni occasione buona per manifestarsi, accadere, rinnovarsi, ritrovarsi: universale, antica e nuovissima. Il risultato sono installazioni che– dice l’artista «hanno il tempo e lo spazio della pittura».
È senz’altro una pittura d’occasione quella di Luca Di Terlizzi: una rapsodia di colori, impressioni, segni, movimenti, flussi, forme, visioni che sembrano venire per moti istintivi, che si fanno flusso e poi linguaggio, fino a una chiarezza. Ci vuole la destrezza e la misura di un danzatore. L’artista racconta della sua pratica pittorica: «Non stendo il colore direttamente con il pennello, ma in maniera liquida, in senso orizzontale, e poi lavoro con rulli. Per fare questi gesti, c’è un movimento e una danza. Devo immaginare bene prima quello che devo fare, perché l’acqua va per conto suo e devo essere prontissimo quando vado a dipingere, devo sapere come muovermi. Prima di ogni quadro c’è un lungo lavoro preparatorio».
Il risultato è una stesura informale che, qua e là, vede l’emergere di qualche forma, per cenni e intuizioni, ma senza descrizioni: quelli che affiorano sono elementi simbolici che parlano la lingua molteplice della reminiscenza, del sincretismo, delle religioni, delle filosofie, della ricognizione antropologica. Caos e pluralità. «Ma questo caos– avverte l’artista– non è una spinta verso l’irrazionale, bensì il segno di un particolare tipo di realismo. La vita è vista come un flusso, che non deve essere violentato da una struttura. La forza può rompere la forma. Ritmo, tono, incoerenza narrativa e psicologica. Sarà rifiutata la prosa in favore della purezza della poesia».
Luca Di Terlizzi, con la curiosità dei suoi vent’anni, è assetato di vita, di purezza. Cerca l’essenza delle cose attraverso la loro rarefazione. Nel caos cerca una rivelazione, un presagio, la manifestazione di un divino tutto umano. La pittura fatta «con occhi sognanti» è per lui quasi una pratica meditativa, un modo di guardare dentro di sé per sintonizzarsi su quello che c’è fuori e cercare di stabilire una connessione, la comunicazione di un sentimento di condivisione. «È la ricerca di uno sciamanesimo– cerca di spiegare– la ricerca del divino, non visto in chiave religiosa ma rispetto alla bellezza che sta intorno a noi, che spesso è troppa e va mediata e restituita attraverso la pittura».
Gesti antichi, consapevoli. Significativi in ogni scelta fatta. «Dal punto di vista dei materiali– prosegue– quello che vado a utilizzare è pigmento puro, qualcosa che viene dalla terra, dai cristalli, dai minerali, dal basso. Qualcosa che è profondamente interno a questo pianeta, che ne fa parte e, attraverso la pittura, cerco di farne parte anche io. Mi rendo conto che l’atto del dipingere è molto grande, molto antico e cerco il coraggio di farne parte a modo mio. Ritengo che nella mia ricerca sia profondamente radicato il bisogno di rendere grazie all’origine. Per questo tengo a dire la mia ricerca ha qualcosa di profondamente sacro».
La carta, vecchio amore dei primi esperimenti, torna in modo più consapevole e studiato in questo progetto. Dona ulteriore leggerezza al vento sottile delle chimere e dei mantra. Resta fuori– da quello che finora Luca Di Terlizzi ha scelto di mostrare al pubblico– tutto un lavoro preparatorio imperniato sulla scrittura, sulla redazione ossessiva di uno spartito di parole. Un monologo interiore che, scrivendosi, alimenta il discorso pittorico. L’auspicio è che possa trovare in futuro un posto tra le cose visibili. Forse, ipotizziamo, uno dei modi in cui Di Terlizzi potrà crescere, sarà abbracciare anche le manifestazioni più marginali del suo lavoro artistico, che marginali non sono. Facendosi, dunque, poesia.
Roma, ottobre 2024